29 dicembre 2006

Report nella città creativa 5 ::: Il ‘polo salesiano’ :::


E’ probabile che prima delle elezioni comunali di primavera l’amministrazione Poli inauguri le Officine Cantelmo, l’ex fabbrica destinata a diventare ‘student center’. Non riusciamo ad immaginare che cosa significhi. Non riusciamo ancora a presagirne la praticabilità! L’impianto sembra molto bello, legno, vetro, infissi a scomparsa che esaltano le semplici linee di quel che è rimasto del sito originario. Un’operazione di restyling che affinerà quell’idea bruxellese che Adriana Poli persegue: metropolitana di superficie, alberi tosati, aiuole, fiori e tutto ciò che è popolare, etnico, gioiosamente chiassoso nel “fuori le mura” di Settelacquare. Il nostro sindaco, abituato ad anni di Europa, molto spesso scorda la dimensione meridiana di una città che, se pur particolare ed aristocratica, è sempre città del Sud e ne vuole cambiare la natura scordando, come i re, di comunicare il cambiamento, di socializzarlo, di valutarlo, di calibrarlo ai bisogni. Il nostro sindaco decide per suo gusto e convenienza il così si fa! Ma tant’è!
Qualcosa che è veramente ‘student center’, connotando con questa nominazione una strutturazione di servizi ‘culturali’ costruiti ed indirizzati al consumo giovanile della città studi - altra prerogativa leccese - sta nascendo, mettendo idealmente e concretamente in rete una serie di contenitori. C’è un aggregato fatto da virtuosi, che come antichi coloni scelgono “migrare”, allontanandosi dall’annichilimento inconcludente dei grandi spazi del centro storico. Andare in cerca è sempre calibrare nuove opportunità, mettere seme, germogliare per poi crescere e darsi futuro. Qualcosa capita. Processi graduali, aperti alla sperimentazione.
Il polo salesiano di là dalla circonvallazione interna che sino agli anni sessanta era il limine della città, aperto alle campagne che ospitavano campetti e tratturi, delizia di crossisti e pedalatori in cerca di emozioni selvatiche, oggi, dopo un’urbanizzazione che ha allungato la città verso un nuovo limite, si appresta a diventare un richiamo attivo di proposte culturali. L’università con il suo bisogno di spazi vi ha insediato, nelle strutture che la Provincia aveva destinato alla formazione professionale di concerto con la vocazione salesiana di dare mestiere e prospettiva di vita ai ragazzi, una residenza per gli studenti ed alcuni suoi insegnamenti. Ma ancora tanti spazi rimangono vuoti di funzione nell’ex Cnos (centro nazionale opere salesiane).
Il primo creativo a giungere nella cittadella dove, secondo Don Bosco, “l’educazione è un fatto di cuore” è stato Aldo Augieri con il suo “Asfalto Teatro” prendendo in affido un piccolo capannone ed ambientandovi un particolare atelier di costruzione scenica. Da Asfalto sono passate e passano visioni, poetiche e desideri di persone molto diverse tra loro che hanno saputo concertare una lingua comune, un fare che ha dato vita a due notevolissime produzioni. Dimostrazione di come la palestra, l’opportunità del luogo sia la leva essenziale della creazione artistica.
Presto, nella stessa area, prenderà vita un progetto più complesso per aspirazioni ed intensità coinvolgitive, curato da Maurizio Buttazzo dell’Associazione Sud Est, con il sostegno del nuovo Assessorato alla Cultura della Provincia di Lecce. Una manifattura che, mirando al ripristino e alla diffusione di quella cultura dei materiali e del lavoro artigiano che connota la fabbrica leccese della carta e della pietra, dà corpo ad un’iniziativa che mantenendo e rispettando il valore e la storia del luogo ne riconverte l’uso aprendo gli spazi al lavoro creativo, alla progettazione, alla contaminazione. Un’area di scambio esperienziale dove possano connettersi pratiche diverse: dal design, al cinema, dalla scrittura alla comunicazione visuale e performativa. Un grande spazio aperto, officina necessaria di una città che vuole farsi europea e mediterranea.
Al cineteatro “DB d’Essai” (ex Don Bosco), le pareti nel foyer sono diventate di un tenue arancio. Gestito da una cooperativa di giovani nata nel 1995 con lo scopo di riaprire una sala parrocchiale chiusa da innumerevoli anni “con la prospettiva e la convinzione che il Cinema, in una terra di arte e tradizione, di suoni travolgenti e colori accesi, come è il Salento, non possa limitarsi ad essere il passatempo di una serata, ma debba diventare un'esperienza culturale capace di coinvolgere, appassionare, smuovere coscienze e produrre idee. Un piccolo ‘cinematografo’ più che un cinema (direbbe Bertolucci) di prima visione d’essai, spartano, simpatico, coraggioso; senza maschere in divisa o sedili col poggia-pop-corn integrato, ma con valanghe di idee, curiosità, progetti, incontri, dibattiti, recensioni, amici, clienti fedelissimi”, film fantastici selezionati da ‘Circuito Cinema’, organizzazione nazionale che programma più di 100 sale in tutta Italia con film che hanno particolare interesse culturale, e da ‘Centocittà’, iniziativa di Cinecittà Holding spa. Un ambiente aperto all’incontro ed alle novità: di sotto una grande sala laboratorio ospita i corsi di teatro diretti da Ippolito Chiarello, anfitrione del Teatro la Nasca, l’ultima formazione di una scena che mai come in questo momento sembra ricca di iniziative, che qui ha trovato gioiosa ospitalità.
Trasformare i teatri in teatri non è compito facile. Sino ad oggi l’iniziativa teatrale non istituzionale (quell’altra è completamente assente) a Lecce si è mossa sull’invenzione di spazi adibiti e finalizzati a divenire luoghi teatrali. Dalle cantine degli anni settanta (memorabile un Pinocchio allestito da Marcello Primiceri in un grande spazio sotterraneo a due passi dal Paisiello) agli atri dei portoni (il Teatrino degli Impraticabili di Antonio De Carlo in via Cota), ai grandi garage (Astragali, in via Candido), alle fabriche dismesse (Cantieri Teatrali Koreja). Dopo l’Antoniano adesso è la volta del cineteatro salesiano tentare la carta del farsi spazio di spettacolo, di produzione e di ricerca. Teatro a tutto tondo, spazio di accoglienza, di ricerca e di produzione.
Il carnet delle presenze creative è di tutto rispetto. Dicevamo di Ippolito Chiarello, attore di grande talento, oggi impegnato nell’interpretazione di Bartolomeo Vanzetti in un allestimento dedicato ai due anarchici italiani della compagnia il Cerchio di Gesso di Foggia, regista e formatore teatrale, videomaker (vi segnaliamo il bellissimo “Fumo”, un corto con aspirazioni di lungometraggio che Chiarello ha costruito ripercorrendo il ricordo di una suggestiva vicenda d’infanzia). Con lui le attrici Cecilia Maffei e Graziana Arlotta. Il programma dei laboratori è intenso ed articolato. “Arrivano i mostri” rivolto ai ragazzi dagli 8 ai 13 anni; “Fuoriscena” che attraverso la lettura dell’Antologia di Spoon River del poeta americano Edgar Lee Master, avvicina all’arte scenica gli appassionati e con “In scena” li specializza invitandoli ad affrontare la complessità shakespeariana. La particolarità dei laboratori è che tutti sono completati da un’ultima fase residenziale che affina il percorso di produzione prima della messa in scena delle opere.
Iniziative diverse animate da una spontaneità creativa, garanzia di autonomia progettuale che è possibile immaginare intersecata e corrispondente a quel desiderio di una Lecce in grado di armonizzare e valorizzare le sue risorse e le sue qualità anche al di fuori del recinto stucchevole della città d’arte.

MM

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20 dicembre 2006

Report nella città creativa 4 ::: Cose di Cinema :::

Mercoledì 20 e giovedì 21 dicembre dalle ore ventuno, presso le Officine Culturali Ergot, in Via Palmieri (P.tta Falconieri) a Lecce, due serate dedicate ai corti e al cinema con "Cortizone" rassegna di video e di visioni a cura di Cristina Ria. Il programma prevede una ricco catalogo dalla collezione di Visionaria curata dal regista Enea Garrapa, che presenta i lavori di Andrea Cananiello, Enea Polimeno, Diana Costa, Simone Pellegrino, Dino Caldarazzo, Giuseppe Finguerra, Antonio Meucci, Raffaele Vasquez. In programma la visione di "Dialogando con il cinema europeo" del regista e autore Gianluca Camerino, report documentario dedicato al festival leccesedi primavera e una conversazione con Vincenzo Camerino dal titolo: "Gli sguardi inquieti del cinema".
Ne ha fatta di strada la ‘settima arte’ nell’arco di un secolo, più di ogni altra è segno delle palpitazioni del Novecento, della sua vertigine onnivora, onirica e onniveggente. Dai primi rudimenti della lanterna magica e degli artifici ottici, all’oggi informatico, che velocemente scorda il passato prossimo dell’immagine chimica nel misterioso farsi delle emulsioni fotografiche e approda al confort dell’home video che sostituisce e svuota le sale cinematografiche e freneticamente moltiplica le ‘case’ di produzione. Il digitale ha portato un radicale cambiamento nell’approccio con il mezzo, democratizzandolo e volgarizzandolo. Non c’è più mistero, tutto è possibile, alla portata di chi vuole ‘scrivere’ l’accadere della realtà. L’automatismo della ripresa, l’accessibilità agli strumenti, allargano la platea degli aspiranti filmakers esaltando quelle particolarità autoriali che scuotono l’immaginario continuando ad inventare con e per il cinema.
Magia di una macchina di luce che è sintesi di lingue. Sincretismo sublime e sublimante. Un angolazione, uno sbieco dello sguardo che costruisce, sostituisce, illude la realtà. La costringe, la libera, la idealizza. E il tempo non è più, la Storia non è più, gli occhi che guardano non sono più occhi ma protesi ottica che si apre e si dispone alla scoperta d’un altro reale. Mirare una visione e in silenzio accogliere il racconto, il divenire delle immagini. La lingua dell’autore ci porta, ci accompagna, ci accudisce nell’’intero’.
Il Salento e Lecce su quest’onda hanno trovato la loro “nouvelle vague”. La cifra della luce, dello spazio, una freschezza di approccio quasi d’avventura è stata, da un lato, pretesto di una adunata di cineasti che ‘scendono’ in Salento attratti soprattutto dalla possibilità di produrre a basso costo e, dall’altro, distinguo di quelle sensibilità locali che attraverso il cinema hanno messo in moto la macchina dell’orgoglio identitario, del desiderio di indagare passato e presente presentandolo ad una ‘mdp’ nell’attimo dell’accadere meridiano, scrivendo e inventando storie.
Molti gli interpreti di questa autonomia creativa clamorosamente capace. Edoardo Winspeare, Davide Barletti, Paolo Pisanelli. I maestri di linee di lavoro originali e potenti nell’impianto di costruzione della visione.
“Pizzicata”, “Sangue Vivo”, “Il miracolo”, ma anche le opere ‘minori’ del regista di Tricase segnano un Sud sempre traversato e attratto dal dolore, chiave di un sentire ‘trascendente’ che si ri-trova e libera nella rammemorazione del sé. Individualità e comunità tenute insieme da un sistema rituale che si rigenera, mostrando la forza d’un territorio che è luogo dell’anima. Segreto, che solo le sensibilità creative percepiscono, rispettano e valorizzano appieno. Su questo Winspeare ha fondato sin qui la sua estetica, accogliendo l’insegnamento neo realista che raffigura la cadenza del tempo storico e la trasfigura nel dramma.
Davide Barletti e il suo collettivo di sodali scardina l’impianto narrativo affinando lo stile compositivo a sintonie hip-hop, altra rilevante ‘tradizione’ salentina. Italian Sud Est è un capolavoro della costruzione filmica digitale, raffinata fusione di andature visionarie e di sensibilità autoriali che scorticano l’oleografia di un Salento da cartolina mettendo in scena la ‘semenza’ più autenticamente ‘altra’ che lo scrigno custodisce. Un Salento traversato, travagliato, gridato, messianico e svelante che trova come contro canto l’acrimonia di due, ‘gatto e volpe’, rappresentazione dell’invidia che la normalità ha del folle, del semplice bonario e spirituale. Un San Giuseppe-Giggellino ingenuo, idiota - l’illuminato cui è dato ‘sapere’ - è la guida di questo fantastico srotolo di storie e di emozioni.
Paolo Pisanelli l’altro rigoroso, che sceglie la sponda del documentario per fare un cinema del reale che come quello dei grandi è tessitura di stupore, scavo dei territori che attraversa. I suoi documentari negli ospedali psichiatrici di Roma e di Firenze, il racconto del gay pride, l’ inseguimento biografico dedicato a Don Vitaliano alcuni dei report del regista leccese con il grande affresco del Sibilo Lungo dedicato al Salento, disincanto non solo del portato tradizionale della ‘taranta’ ma anche della filmografia documentaristica che l’ha accompagnata.
Ma c’è molto altro l’officina del cinema è generosa di talenti e sfonda all’indietro nel tempo.
Alle origini ‘vhs’ c’è Adriano Barbano inventore di televisioni e di film, poi Marc Van Put, iniziatore con Giuliano Capani della stagione della divulgazione professionale della telecamera sino all’oggi popolato di vocazioni e di talenti.

Carlo Michele Schirinzi che dalla pitto-fotografia con naturalezza smargina in una video arte d’autore, raffinata ed artigiana che lo vede artefice totale, intrigato interprete del suo immaginario. Gianluca Camerino che con delicatezza graffia la crosta di un Salento indifferente che scorda i suoi poeti e i guai della modernità. Biagino Bleve portatore di leggerezza e di sfottò neoromantici, Maurizio Buttazzo, Roberto Greco registi, ideatori di spazio e di soluzioni tecniche che hanno permesso a molti di crescere la loro passione cinematografara. Caterina Gerardi, Giovanni De Blasi, Ippolito Chiarello, Marta Vignola, Corrado Punzi, Caterina Mangiò, Roberto Quarta, Davide Faggiano, Giulio Schirosi, la vasta platea dei ‘migliori’, interpreti di un movimento che nonostante la difficoltà di un territorio lento nell’apprestare e affinare una sua più efficace struttura di promozione e di supporto continua la sua ricerca.

MM

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Report nella città creativa 3 ::: La poesia. I nuovi costruttori :::

La poesia odora
è poesia da tutte le parti
ed io mi fingo lo specchio in cui trafugo
quei sogni accorti che ti racconto.
Antonio Verri

Due virgole di luce segnano l’abside dell’Auditorium Diocesano della Vallisa, a Bari, nel giorno di Santa Lucia. Variazioni di blu, tagliano la scena di “Sudario, le voci dei poeti sul corpo del Sud”, le parole e i suoni l’addensano. Fogli che cadono, ascoltati da una platea attenta, capace di accogliere. Ospite: Enzo Mansueto, felice regista di una tessitura per molti versi inedita. Con lui, autore del progetto ‘La Zona Braille’, il compositore Davide Viterbo e il cantautore Angelo Ruggiero; Giovanna Marmo, napoletana, “poetessa vaga e crudelmente fiabesca” accompagnata dagli sperimentalismi sonori e cantautorali di Nino “Ninette” Bruno. Mario Desiati, poeta e narratore che ha prestato la voce all’Inferno Minore di Claudia Ruggeri e i ‘nuovi poeti salentini’ - Rossano Astremo, Luciano Pagano, Gioia Perrone, Ilaria Seclì e Irene Leo - accompagnati dalla virtuosa sensibilità musicale di Claudio Prima, Redi Haza, Emanuele Coluccia. Insieme hanno ‘cantato’ i loro versi “sul corpo morto dello stereotipo meridionalista, luogo comune trito e infecondo, e sul corpo morto di voci defunte, troppo presto, ma che grazie alla poesia, ritornano come impronte sul sudario”.
Questa volta per il nostro report nella città creativa, partiamo da Bari. Da quest’evento, ospitato nella terza edizione del festival musicale Le Voci dell’Anima - Occidente Oriente, andiamo incontro alla sostanza della poesia che a Lecce e nel Salento è fatto concreto che riguarda persone, esperienze e anche luoghi.
Si può viaggiare attraversando l’immateriale? Incrociare la traiettoria di una voce, di un sussurro? Camminare in punta di piedi su tracce d’inchiostro, osservare non visti il divenire di un verso tinto di penna o scolpito, con la luce, su uno schermo. Si può? Sì, si può!
La poesia è “cattura del soffio”, matrice che dà corpo e sostanza all’immaterialità. C’è un pensiero, un’idea e poi un movimento di mani, di corpo, di anima, di voce che mette le cose in vita.
Per capire l’ultima onda del fare poesia, e trovarci a nostro agio in compagnia dei sodali del “naviglio innocente” indaghiamo un passato non molto distante, a bordo della “nave castro” bordeggiamo verso Guisnes, in cerca di Antonio Verri, l’ultimo interprete della tradizione novecentesca. Il ‘moderno’ saraceno, che osando il ‘post’ ha scritto la pagina più completa e prospetticamente certa dell’esperienza letteraria di Terra d’Otranto.
Lui era umile e caparbio, sincero ed ingenuo. Certo nell’osare, spericolato e gentile maieuta di volontà. Custode affettuoso di vite. Un angelo! Motore ideale - ed anche concreto - di pratiche che hanno sdoganato la ‘soggezione’ salentina, aperto il recinto della provincia, presagito l’importanza del margine, della piega, del confine. L’esortazione del suo “Fate Fogli di Poesia Poeti!” può essere considerata il manifesto dell’agire poetico salentino di questi anni, ispirazione e modello di una necessità di dire e di dirsi, incontenibile. Di una densità operativa che trova oggi, a più di dieci anni dalla sua scomparsa, spinte di accelerazione e di completamento che pienamente hanno accolto la ‘maestria’ che da lui viene, modello operativo diffuso e condiviso, con ipotesi ed articolazioni intellettuali che smarginano i generi.
Se si guarda bene c’è un ‘attaccamento alla poesia’ che nel Salento è sempre presente, si rinnova, viene fuori, in un crescendo suadente e pervasivo. La sua qualità poetica trova tempo e occasioni per esprimere la sua valenza e la sua autonomia. Che clamore di relazioni! Che ricchezza di incontri! Nel passato come nel presente. Aggregati, avventure private, vaneggiamenti e scontri teorici, racchiusi in pagine che s’interrogano e trovano risposte, incanti, stupori. Strati, sedimentazioni, storie di vite disincantate, romantiche e tragiche, sino all’oggi vitale e vitalistico in un riscatto montante, capace di opportunità creanti.

Ilaria Seclì, Gioia Perrone, Elena Cantarone, Carla Saracino, Marthia Carrozzo, Michelangelo Zizzi, Luciano Pagano, Rossano Astremo, Giuseppe Semeraro, Andrea Aufieri, Vito Antonio Conte, Angelo Petrelli, Paolo Antonucci, Vito Lubelli, Giovanni Santese, Tiziano Serra, Simone Giorgino, sono i protagonisti di una ‘via vai’ che attraversa la città, i suoi luoghi, il suo tempo, dilatandola al mondo, contemperandola alla contraddizione dell’oggi, avendo occhi per interpretarla nelle andature del verso spesso sferzante, crudo, acido. Nomi non a caso, scampoli di storie unite da percorsi che hanno avuto in comune tempo, coincidenze e fughe. Incroci d’attimi e generosi incontri, nati a sommuovere l’ordinario ‘non so’, motivati da un forte desiderio di condivisione. Con aspettative e orizzonti. Frequenze, abitudini, modi di pensiero e di scrittura diversi che hanno avuto occasioni, amori e passioni comuni, stesso progetto. Per tutti la poesia, l’esercizio dello scrivere, la pratica del ‘dono’, della verifica costante confrontandosi in letture private e pubbliche, in scambi di suggestioni, in innamoramenti autoriali, in infatuazioni poetiche che danno corpo lirico vivo e militante, alimentando con nuova linfa percorsi già aperti nel lungo cammino del Novecento e dei suoi interpreti, ormai sommi.
L’oggi della poesia osa. Lascia la pagina e ‘rischia’, gioca le regole del teatro, tira fuori la voce, crea situazioni. Poesia-voce lasciata libera, fuori in evanescenza di tempo, nella luce che abbaglia. Guardiamo un Salento ‘opera’, dove il tempo contiene vicende che mutano il nome ma non la sostanza della loro carica emotiva e creatrice, capaci di calibrare, per accumulo d’esperienza, ogni rigore necessario a segnare il Progetto. Per scordarlo, lasciarlo alle mani che sanno pensare e de-pensare… libere di nutrire materia e natura. Uno svegliarsi d’attenzione che immagina, sente e scrive definendo percorsi, scorci di bellezza, stupori e sprofondi. Dalla linea del cuore, come per Verri, costruttori di armonie.

MM

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Report nella città creativa 2 ::: L’arte della cura! :::


Per un poco allontaniamoci dai clamori della città, dai percorsi consueti e proviamo un altro passo. Cerchiamola l’arte nelle pieghe, nelle zone d’ombra, dove non ci aspettiamo di incontrarla.
Andiamo in un luogo apparentemente separato: l’ex Ospedale Psichiatrico “Giuseppe Libertini”, ‘tornato’ alla città nel settembre del 1998 a vent’anni dall’entrata in vigore della legge 180, che decretava la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici. Oggi ci appare come un parco, con il lungo viale abitato da sontuosi pini, a lato, guardiamo l’imponente mole dei padiglioni. alcuni destinati a nuova vita, altri, in attesa, portano l’odore di ciò che è stato. Fu un evento densamente creativo, progettato da Bigsur e pienamente accolto dalla direzione generale dell’epoca, a sancirne la sua ‘ex funzione’ destinandolo a nuove pratiche. “Apriticielo”, questo il nome scelto per la tre giorni che, nonostante la pioggia portò nell’isola del dolore, in quel corpo estraneo e sconosciuto della città l’esperienza di numerosi artisti e la curiosità dei cittadini che con sospetto e timore avevano guardato al di là del grande cancello verde. 3000 persone misero gli occhi nello spavento delle grandi camerate, nei refettori, nei bagni con le vasche in fila; mirarono dagli spioncini e videro le scatole che contenevano le televisioni nelle grandi sale collettive, l’infilata dei neon e le piccole luci blu per la notte. Fu possibile leggere i graffi sui muri e i resti di tante esistenze lì private della loro dignità di essere persona nel bianco candido di pareti piastrellate.
La creatività la andiamo a cercare il quel recinto e la troviamo, sorprendentemente in atto. Con una qualità ed una determinazione di ricerca sorprendenti.
La galleria buona sta nei corridoi del Dipartimento di Salute Mentale della AUSL Le 1, diretto dal dottor Serafino De Giorgi, bravo psichiatra e bravo ‘intenditore d’arte’. Una sequenza di pitture, impaginate su nero mostrano il lavoro del Centro Diurno del CSM leccese. Lavori astratti, ritratti, paesaggi, sorprendenti visioni urbane. Il colore trattato in tutta la sua materialità. C’è una rivoluzione percettiva quando guardi quella che Jean Dubuffet chiamò art-brut. C’è una forza inconsueta che si muove. La meraviglia scaturisce e de-connota ciò che già sai. Divieni solo sguardo. Necessario è mettere da parte, scorticare proprio, le categorie precostituite dell’arte per accogliere ed apprezzare. Ed è un godimento assicurato.
Da quei quadri, in bella mostra in ambienti che hanno pienamente recuperato la loro funzionalità accogliendo un polo formativo d’eccellenza, prende il via una visita più larga, curiosi dell’origine di quelle opere. Andando a cercare scopriamo un modo di approcciarsi al disagio psichico e alla ‘malattia’ mentale che in qualche modo conferma quell’attitudine salentina che sa fare recinto e cura, accudimento e valorizzazione.
Qui da qualche parte si parla di reversibilità, non più solo di riscatto, di diritto di cittadinanza, di un astratto sentirsi alla pari! Qui, nel confronto con la ‘qualità sensibile’ del paziente si sperimentano pratiche che lavorano sui linguaggi. Una comunicazione circolare che si irradia da ogni soggetto coinvolto al gruppo con una chiarezza di progetto sorprendente che rompe l’idea dello stigma e del recinto protetto, dialogando con l’esterno, con l’altro, con l’intero sociale.
Il Centro Diurno leccese, ‘ambientato’ in un ala di un vecchio reparto del Vito Fazzi, è coordinato dalla dott.ssa Maria Antonietta Minafra; Valentina Sansò, Paola Torsello, Silvia Bressan, Mary Congedo, le guide creative, chiamate quotidianamente a confrontarsi con una utenza consapevole e responsabilmente capace di elaborare il proprio disagio esistenziale. Un lavoro complesso, e per molti versi gioioso, che alla pittura affianca la scrittura, la composizione grafica, il movimento. Una gamma di laboratori che hanno inventato la biblioteca degli Aspiranti Libronari e avviato Germinazioni, un presidio del libro tematico inserito nella rete nazionale della promozione della lettura; inventato oggetti di design riciclando carta e una rivista, Naviganti, edita dall’editore Manni diffusa in tutta Italia. Incontri e seminari che riflettono sui diritti umani, con incontri curati da Stefania Ricchiuto; dissertano sul Libro Verde che descrive l’orientamento della comunità europea sulla salute mentale; indagano le vicende legate alla vita di Franco Basaglia, per non dimenticare e per conoscere la sua opera. Tanto fare che dà intensità allo stare, costruisce atti utili, che aprono al sorriso, all’incontro, alla critica e anche al pianto. Una catarsi necessaria che sfoga tensioni, e allenta, e sana quando solidale e piena.
Vicino, dentro l’aperto del recinto, tornando verso l’ex-opis c’è il Centro per la Cura e la Ricerca dei Disturbi del Comportamento Alimentare, diretto dalla dott.ssa Caterina Renna anche questo attraversato e contaminato da pratiche creative che sollecitano e allertano l’espressività. Il Centro, dalla sua fondazione ha elaborato momenti di sensibilizzazione, che si sono rivelati capaci di definire un’immagine di apertura e di disponibilità che ha permesso a molte giovani donne di avvicinarsi senza la preoccupazione o l’angoscia di svelare il proprio sintomo, senza la sensazione di cadere nell’abisso sconosciuto che la cura spesso rappresenta. L’arte, il lavoro creativo, l’approfondimento culturale e scientifico sono state le leve su cui si è costruita la relazione con l’esterno e la chiave di un lavoro terapeutico che punta all’integrazione di esperienze e competenze diverse per rispondere a quello smarrimento, a quel sentimento di inadeguatezza così fortemente critico nei riguardi dell’ordinario della vita, che non corrisponde aspettative, che profondamente delude la sensibilità di chi sente di doversi sottrarre, senza immaginare di reagire, inoltre alla fragilità del proprio sé, punito, mortificato, svuotato di vita.
Una sofferenza quella anoressico-bulimica, che coinvolge tutti i livelli della persona, che altera profondamente i rapporti affettivi e relazionali, non può essere affrontata e risolta da terapeuti che si occupano esclusivamente del sintomo ignorando tutto il resto. É necessario un contatto fortemente creativo, al di là di procedure standardizzate: ogni persona ha una dignità ed una propria cultura che valgono in quanto tali, al di là dell’aspetto corporeo è necessario cercare di definire possibilità di espressione, di oggettivazione della propria differenza sentimentale ed emozionale, per riportarla ad una normalità, ad una quiete, ad una pienezza comunicativa.
In questi luoghi - si progetta, si immagina, si sogna e concretamente si vive, ‘demitizzando’ lo stigma, la differenza. Interpretare il tempo della cura attraverso la pratica creativa, significa progettare un coinvolgimento “responsabile” ed evolutivo del paziente che intraprende un percorso di scoperta delle sue potenzialità. Una ricerca che cerca di individuare e dire le emozioni, gli affetti, le necessità. Tensioni ed idealità che si oggettivano in atti espressivi, in comunicazione, in vita attiva. C’è come uno stato pigro che conferma il sè malato, che ferma l’agire, lo incanta in un andare e venire dei pensieri che si fanno mormorìo dell’io. L’artista è capace di distaccarsi dall’opera per contemplarla, allo stesso modo nella cura si può fare di sé l’oggetto dell’opera. Chiedere alla terapia di farsi opera è fare della cura un’esperienza creativa. Un cammino di maturazione, in grado di affinare autostima e capacità relazionale, di svezzare vocazioni e attitudini, di fortificare il paziente nel suo diventare autore di sé, dentro una possibilità nuova di concepirsi.
Molte altre sono le esperienze in campo sanitario, che ricorrono ad esperienze creative per trovare un alleato utile alle strategie terapeutiche. L’incontro con l’arte è prima di tutto motivo di rinnovamento del rapporto tra istituzione e soggetto. Un alleato che interagendo tra individuo e struttura sanitaria, gioca il ruolo mediano della cultura, della sua autonomia, che soltanto nel gioco relazionale trova effetto ed efficacia. L’attesa del guarire si muta in movimento, in un movimento dell’anima, che sceglie svelarsi, sceglie di condividere l’esperienza riscattando il silenzio, la chiusura, la negazione che porta con sé il manifestarsi della malattia.

MM

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Report nella città creativa 1 ::: Il cinema Teatro dell’Antoniano :::

E’ possibile un viaggio nella Lecce creativa? Lasciateci il gusto della domanda retorica! E’ possibile! Ed è un viaggio che si presenta lungo, pieno di ascolti e di sorprese. Tante le realtà operanti, tanti i luoghi, tanti i protagonisti.
E’ utile dunque darsi un metodo, tentare di tracciare una mappa, fare i puntamenti alle traiettorie per dare ordine ad un lavoro che vuole essere un reportage su ciò che si muove e vive nella città di Lecce, in quanto creativo, artistico, culturale. Qualità che la connota e che giorno dopo giorno ne diviene la parte più visibile. Necessaria e utile a prefigurare il futuro di una città pienamente terziarizzata che fa della cultura il suo perno di sviluppo.
Botteghe che conservano e reinventano la tradizione dei materiali, piccole sale di associazioni che accolgono istanze e desideri, di carta, di colore, di parole, di gesti. La realtà efficace ed organizzata dei Cantieri Teatrali Koreja e la ricerca saettante e ombrosa di Astragali, le invenzioni organizzative ed editoriali del Cool Club e il mesclado di Zei. Autori, attori, filmakers, grafici, aspiranti e confermati, che attraversano la città con i loro lavori, trafelati ed attenti, sempre pronti a discorrere, a ‘pungere’, a sorprendersi.
Ma procediamo con ordine e scegliamo di incominciare dalle novità.
Da un luogo storico, organico alla città, allenato ad accogliere. Generazioni di ragazzi e di giovani vi si sono formate, hanno imparato a pregare e a guardare. Aprire gli occhi al mondo e ad aprirli alla meraviglia dei film, nel recinto protetto del cinema dell’Antoniano. Personalmente ricordo l’attesa della domenica e sinceramente penso che le ‘mattinate’ godute ai ‘monaci’ siano state quelle più dense di stupore e di serenità. I dolci anni ’60, del tutto possibile, del tutto in divenire, gli anni della speranza.
Sappiamo che è nella storia della istituzione antoniana favorire la socializzazione attraverso le arti, chi non conosce lo Zecchino d’Oro, il coro dell’Antoniano di Bologna e quanti sono i cinema nati nel corpo di una parrocchia per accogliere e dare qualità al tempo della gente.
Ma ciò che avviene a Lecce la ritengo una novità. Oggi (e già da almeno quattro anni) il Cinema Teatro dell’Antoniano si muta in un contenitore di esperienze e di sapienze creative in una interazione e compensazione di arti che lo qualificano come spazio interdisciplinare di educazione allo spettacolo. L’aggregato innovativo nasce intorno all’Associazione Culturale “Antoniano” – Teatro Antoniano di Lecce, fondata e con sapienza guidata da Padre Luigi Aluisi, che propone con la ‘classica’ programmazione della sala cinematografica un nutrito corpus di percorsi formativi e un variegato cartellone di spettacolo. C’è un’immagine prima. Due grandi manifesti progettatti da Vincenzo Zichella, svelano una dinamica operativa articolata che fa formazione e proposta di visione. La musica, la danza, il teatro fanno scuola e parallelamente nutrono la scena cercando intorno, concependo rassegne, concorsi, scambi. Un atto coraggioso, di forte autonomia progettuale che unisce forze, interessi, sensibilità, sollecitando iniziativa e spirito di ‘impresa’. Di avventura meglio, di gioco e di lavoro comune per darsi quotidianità e futuro. Per dare concretezza all’istinto del creare, nello scambio maieutico ed educativo.
La scuola di musica offre percorsi di approccio adeguati all’età e al tipo di formazione richiesta. La direzione artistica è affidata a Irene Scardia, pianista ed autrice di raffinato sentire, già direttrice del laboratorio musicale “L’Orchestrina” e dello straordinario coro Sudivoce. Nella scuola antoniana è affiancata da una rosa di musicisti professionisti, che curano le classi di strumento. Da quest’anno, oltre ai già consolidati corsi di musica classica o moderna (rock, pop, reggae, blues e jazz), ha preso il via una nuova sezione dedicata agli strumenti in uso nella musica popolare con classi di organetto, fisarmonica, tamburi a cornice, canto popolare e armonica a bocca.
Dal desiderio di incontro e di approfondimento sulle tendenze e sugli orientamenti della musica nasce “Suoni a Sud”, una rassegna musicale dedicata alla promozione di gruppi emergenti del panorama nazionale italiano. Per realizzarla l’associazione ha indetto un bando nazionale per la selezione tra i generi rock, world, etnico, blues e jazz. Il cartellone prevede un programma di cinque appuntamenti da gennaio a maggio 2007. Il 13 gennaio,il concerto d’apertura di Ivan Segreto; il 10 febbraio concerto del gruppo selezionato “Shoe’e killin’ worm” da Foggia; il 17 marzo il concerto jazz del secondo gruppo selezionato “Europe Connection”; il 14 aprile spettacolo interdisciplinare di “Irene Scardia Ensemble”; il 4 maggio “Leitmotiv” gruppo di Sava (Ta) emerso dalla selezione; il 19 maggio chiusura della rassegna con il concerto di Diego Mancino.
Lo stesso orientamento anima l’altra sezione dell’Antoniano di Lecce dedicata alla danza. La scuola è diretta dalla coreografa Enza Curto, fondatrice della Compagnia di Teatro Danza Duende. Danza classica, moderna e contemporanea il plaphon delle proposte, ma sappiamo che la vocazione della compagnia e della sua ispiratrice è il teatro danza, quel punto di fusione dove la tecnica si fa espressione gioco fisico, energetico.
E su questa linea si muove la rassegna nazionale di coreografia d’autore “Fioriditesta” che l’Antoniano e Duende promuovono con la finalità di valorizzare l’arte tersicorea ed in particolare la creatività dei giovani coreografi. La rassegna, giunta alla sua seconda edizione, si svolgerà in cinque appuntamenti mensili, ripartiti nel periodo gennaio–maggio 2007, vedrà protagoniste le giovani compagnie che saranno ritenute idonee tra tutte quelle che faranno richiesta di partecipazione. Da questa edizione, gli organizzatori, hanno istituito il “Premio Fioriditesta Videomaker”. La partecipazione è rivolta a compagnie e videomakers italiani che hanno realizzato un video di danza o attinente alla danza. Singolare l’assegnazione del premio che sarà assegnato, tramite votazione, dal pubblico che presenzierà alla serata di proiezione dei video preselezionati da un’apposita Commissione, tra quelli ricevuti.
Dopo due donne e due discipline che hanno ‘pregio’ e desinenza al femminile - e qui l’associazione ha un perfetto equilibrio di ‘quote’ - il teatro, affidato a due navigati teatranti: Salvatore Della Villa attore e regista, fondatore del Teatro Mascaranu e Francesco Ferramosca sapiente narratore ed animatore di ombre, arte appresa alla ‘corte’ di Nicola Savarese, maestro di teatro e di vita. Anche qui percorsi formativi aperti a tutte le età con una stagione dedicata alla prosa ed una rivolta ai ragazzi.
Salvatore Della Villa, per il secondo anno torna alla direzione della scuola teatrale e della IV Rassegna di Prosa del Teatro Antoniano. Il percorso di formazione è rivolto sia a coloro che cercano un primo contatto con il teatro, ma anche a chi, avendo già esperienze in questo campo, desidera incrementare la propria preparazione approfondendo lo stile recitativo, la dizione e l’impostazione della voce. Interessante è il coinvolgimento degli allievi dell’ultimo anno nella messa in opera di proposte utili alla rassegna di prosa. Vivaio di quella che potrà presto divenire la Compagnia Teatrale dell’Antoniano.
La rassegna di prosa si compone di quattro produzioni del Teatro Antoniano e altrettante produzioni ospiti con nomi di rilievo nazionale. I prossimi appuntamenti: il 2 - 3 dicembre, Anna Mazzamauro in “Signorina Silvani… signora, prego!” per la regia di Pino Strabioli; il 27 gennaio in scena la bellissima voce di Pino Ingrosso in “Serenate sincere”; il 2, 3, 4 marzo Salvatore Della Villa presenta “Il grigio” capolavoro affabulatorio di Giorgio Gaber e Sandro Luporini; il 31 marzo e il 1 aprile è la compagnia del Teatro Antoniano a presentare La Buona Novella di Fabrizio De André per la regia di Salvatore Della Villa. A seguire gli appuntamenti con Marco Cavallaro diretto da Claudio Insegno, un omaggio a Pirandello e la chiusura, in maggio, affidata agli allievi della scuola di teatro.
Francesco Ferramosca è il direttore del corso teatrale per ragazzi e della rassegna di teatro ragazzi denominata “Oplà… in scena!”. Il laboratorio è rivolto a bambini dagli 8 agli 11 anni. La chiave è il gioco. Si darà risalto al corpo e alla voce, allo spazio e alla scena, ai ritmi e ai suoni. Si costruirà un personaggio e si conosceranno fiabe e leggende, clown e miti, il teatro di figura e le maschere.
La rassegna, si inaugurerà con uno spettacolo-festa il giorno dell’Epifania, tradizionalmente caro ai bambini. A seguire, il 3 febbraio, “Arcobaleni” spettacolo ideato da Franco Ferramosca, il 24 febbraio, “Signor Rodari” della Compagnia “L’Asina sull’isola” di Reggio Emilia; il 10 marzo, “Arcoiris” della Compagnia “Terrammare Teatro” di Silvia Civilla; il 13 aprile, “Il signor aquilone e la nuvola Olga” della compagnia “TeatroRidotto” di Bologna; infine, il 5 maggio la rassegna si concluderà con “Girotondi e Filastrocche”, lo spettacolo in co-produzione delle compagnie salentine “Teatro le Giravolte” di Aradeo e “Terramare” di Presicce.
Un nutrito programma, tante occasioni. Un’isola, l’Antoniano, che declina la novità di una “sala della comunità” aperta al vento della cultura, che accoglie creativi offrendo loro spazio e temi di confronto. Buon lavoro!
Per ulteriori informazioni rivolgersi presso il Teatro Antoniano, in via Monte San Michele a Lecce. Tel. 0832.392567 o visitare l’esaustivo sito www.auditoriumantonianum.it

MM

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15 dicembre 2006

“T’ho sempre odiato lo sai pifferaio?”


A San Donato, per la dodicesima edizione del Concorso Gino Perrone, fino al 31 gennaio, presso la Biblioteca Comunale, centro socio culturale di via Roma, è allestita la mostra “T’ho sempre odiato lo sai pifferaio?” di Vittoria Facchini illustratrice molfettese di grande talento e fortuna editoriale.
Vittoria Facchini dice d’essere logorroica nel suo divenire di segni. Una estetica della linea storta, dello sgimbescio, della macchia, dello sgarro calligrafico. Cose di ogni giorno si mischiano: vecchi tomi tinti a grosse pennellate, cassetti, una radio, flauti, pennelli e barattoli di colore. Minuterie assimilate insieme ad immagini prese da rotocalchi, spatinate e trattate nella macina creativa che inquacchia, fotocopia, strappa, accartoccia e rigenera. Sveglia! Apre gli occhi, scuote e scrive un altro senso, un altro guardare.
C’era un signore, in giro per la sua mostra che attraversa ed ambienta le sale della biblioteca comunale di San Donato, che s’era fatto tutto occhi ed indagando ogni piccolo particolare dell’allestimento continuamente ripeteva: “Ah! lei parte da una negazione, esorcizza le paure dell’infanzia, ci fa vedere le sue ossessioni”. Un segnare che è puro impulso emozionale, scatto nervoso, disincanto di un poeta che sganghera la realtà, lo stupore, lo sbigottimento, la paura, i sì e soprattutto i no.
Lei è una che le “acchiappa” le cose che muove, le tira su come da un precipizio e le mette in scena con una maestria pittorica che smargina la fiaba in una fascinazione interpretativa che dal sé va al narrare. Oggettivando un sentire sempre in cerca, mai esausto, veloce, saettante. Mai al riparo, esposto, schierato, militante.
C’è nel nostro oggi, un esasperata ricerca della finitura, di una leziosità decorativa che contamina anche il più trasgressivo trend. Siamo fermi nel tentativo di somigliare! Essere omologhi, conformi, all’altezza di un mondo che della superficilità e della superfice fa virtù.
Qui, tra le cose di Vittoria tutto si rompe e la fiaba è interpretata nel suo brutto di fiaba crudele, al riparo delle malie d’un flauto che strega, dalla parte dei topi e di bambini per “fare a pezzi per ripicca un tremendo ammaliatore” e cattivissimo signore.

MM

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dal lunedì al venerdì dalle ore 9.00 alle 13.00
Il lunedì, mercoledì e giovedì dalle 15.30 alle 18.30
Per contatti 328.0249475]

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13 dicembre 2006

12 dicembre 1969 - Milano, Piazza Fontana - STRAGE DI STATO

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Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e, in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum. Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine ai criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli. Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killers e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il "progetto di romanzo" sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile... "

Pier Paolo Pasolini
14 novembre 1974

08 dicembre 2006

Virtù ed Autarchia

Per una critica della politica

Incontrarsi al ‘centro’. Questo sembra essere l’imperativo della politica. Le ali estreme perdono fascino. Al ‘centro’ c’è la giusta mèta. La saggezza e la generosità dei ‘mediani’. Ma, molti di coloro che in questa formula hanno trovato il solo modo per legittimare la loro esistenza politica, sembrano lontani dai valori che pretendono di promuovere, spesso risultano essere mediocri mediatori, teorici deboli e vuoti di proposizione. Molto spesso, ed è ancora più grave, sono veri e propri ‘estremisti’ incapaci di ascolto e di accoglimento delle ragioni dell’altro. Il trasformismo sembra essere la vera cifra della ‘politica di centro’, un pensiero ondivago attento solo a mantenere posizioni e privilegi.
Il ‘centro’ ha certamente un suo fascino! Anche una carica rivoluzionaria se diviene luogo di rielaborazione culturale, luogo di una redefinizione delle necessità e delle priorità utili a definire un Mondo possibile: compatibile, sostenibile, ragionevole, capace delle sue risorse, delle sue particolarità. Rispettoso della vita.
Già il Mondo! Perché è proprio in virtù di uno sguardo politico allargato ad esso che un ‘pensiero del centro’ (e del rinnovamento profondo della politica) deve trovare la sua ragione d’essere.
Ci sono nel design contemporaneo tendenze che invocano una “new simplicity”. All’imperativo del ‘tanto’ si risponde con una drastica pulizia del superfluo. Un progetto di ecologia della mente che riconduce l’esistenza all’essenziale. La filosofia “slow” che ha avuto successo nel cibo e nell’abitare ispirando uno stile di vita più lento contro l’indigestione del moderno, invita a ritrovare la giusta proporzione tra le cose e la loro possibilità di utilizzo. Per non esserne schiacciati. Un’inversione di tendenza necessaria in una società, cariata dal globalismo. Un groviglio dove si intrecciano tecnologie, culture, sentimenti e rabbie. Dove la continua contraddizione e un esasperato vivere al presente dettano le regole. Padrone il mercato che mai saprà la rinuncia.
C’è una parola che si nasconde dietro questo ragionamento che invoca la saggezza come chiave di una nuova ideologia: virtù. In opposizione a virtuale.
La ‘realtà dell’uomo’ controcanto allo strapotere ossessivante del consumo che distrugge e macina ogni strutturazione valoriale.
Virtù è la rinuncia. Virtù è la capacità di fare un passo indietro, di valutare, di considerare. Farsi umili, capaci di sguardo, di ascolto, di accoglimento. Riguardare al desiderio, a quel motore illuso che sembra aver ingolfato questa modernità, col suo post: bulimico, invadente, logorroico.
Un mondo dove non c’è medietà, non c’è più centro. Invocare una politica della rinuncia, di una nuova ed illuminata ‘autarchia’ non è tornare indietro. E’ sperare nella capacità dell’uomo di ricondurre a sè l’obiettivo della vita, del vivere, che non è abdicare ma ritrovarsi.
Il nostro mondo è “un paese impazzito”. Un paese che radicalizza lo scontro, che ama le risse, che è incapace di frenare il suo istinto, di moderarlo, di renderlo capace di equilibrio. C’è mai stato un modello differente per la politica? Uno stile non muscolare? Non da pollaio? Non da stadio, o meglio da arena?
Verrebbe di gridarlo un grande “basta!”, tentazione di volgere lo sguardo per risparmiarsi l’oscenità del quotidiano. Ma rimane una tentazione. Capaci, come siamo, di sapere altre sponde, possibili all’incontro, al progetto.
La politica rimane nodo all’agire culturale, all’operare che sempre produce relazioni e confronti. C’è da augurarsi un impegno aggregante di pensiero e di energie propositive, nel tentativo di mutare con il fare il corso di una storia che non soddisfa, per elaborare un cambio profondo, nuovo, rivoluzionario. Femminile, generativo!
Immaginare per la politica come una danza, la tensione all’esserci, nel giro largo della leggerezza che fa sorriso l’incontro. Non c’è nessuna forza politica capace di aprire passioni e coinvolgimento ideale, etico, vibrante di dono, nel tentativo ‘pacificante’ della bellezza. Non c’è ‘credo’ che colmi la disillusione che viene dal continuo chiacchiericcio che l’aia del mondo quotidianamente mette in scena.
Non è certamente facile e i guasti sono tanti e tali che richiedono l’elaborazione di un pensiero nuovo, capace di porsi come obiettivo primario la ‘salvezza’. Una qualità differente dello ‘stare a vivere’ che passa attraverso la rinuncia allo sviluppo e alla ricchezza che è foga del denaro, foga del guadagno, foga del dominio e della supremazia, mai tutela, solidarietà, equità, realismo.
Viviamo nel conflitto, viviamo dentro una guerra che non ha mai fine. Viviamo dentro un mondo che ingrassa le carni scordando la giusta catena biologica, viviamo dentro un mondo senza cognizione del tempo, che altera le stagioni. Viviamo in un mondo dove i disastri sono l’ordinario e i guasti provocati da umana mano considerati banali incidenti e non causa primaria delle alterazioni della natura. Viviamo in un mondo sbagliato, dove le parole non hanno più peso, dove la coerenza e la tenuta etica sono soltanto un optional e non un dovere essenziale del politico, dell’uomo.
Verrebbe da dire che siamo alla fine di un sistema, che la democrazia ha fallito, che la rappresentanza e i valori della cultura politica sono svuotati, che viviamo ormai al limite, nel giorno per giorno, senza progetto e senza obiettivo. Da questo la necessità di elaborare una critica profonda, di costruire le linee di una progettazione culturale che sia tentativo altro e diverso, da tessere pazientemente, con costanza, come opera d’arte, onde evitare l’ulteriore affronto al desiderio della vita.
Ci si può pulire i denti dall’opulenza ma non la coscienza!

MM

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