29 aprile 2007

fleurs

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25 aprile 2007


chez antonio de luca


chiesetta della madonna della neve - galugnano, san donato di lecce

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22 aprile 2007

fleurs

15 aprile 2007

villaggio resta :: nardò




località: Villaggio Resta - Nardò
altitudine: 45
popolazione: 175
zona geografica: Salento, versante jonico, si trova tra Nardò e Sant'Isidoro, a pochi chilometri dalla città di Nardò, nel cuore dell’Arneo e a 2,5 Km dal mare.

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10 aprile 2007

La fabbrica del vento


ENERGIA Il futuro nasce a Taranto, dove si producono gli impianti eolici per alimentare l'Italia
di Antonio Massari

Oltre il cancello, un branco di squali bianchi. Alle spalle, fumi incessanti. La grande acciaieria Ilva: ferro e fiamme. Ventiquattro ore su ventiquattro. Altiforni. Vecchie ciminiere affumicate. È l'industria della porta accanto: a due passi dal rione Tamburi. Ma dietro l'antico acquedotto romano a Taranto c'è tutta un'altra storia. Da raccontare. Niente a che fare con fumi e veleni. Accarezziamo lo squalo: "Questa è una pala eolica", ci informano. La sua pinna curvata s'insinua nel vento come un rasoio. L'estremità: spessa un millimetro, non di più. La mano scivola sul corpo affusolato: fibra di vetro e resina. Venticinque metri. Due tonnellate di leggerezza. Questa è l'unica fabbrica, in Italia, che produce impianti eolici. Pale e conchiglie "Per favore: non chiamateli mulini a vento", si raccomandano alla Vestas Italia, società del gruppo danese che - con il 35 per cento del mercato - è il maggiore produttore mondiale. A Taranto i dipendenti sono 600 (tutti italiani), ma con l'indotto si arriva a contarne 3.700. Da qui si esporta in Turchia, nei Balcani, nel Nord Africa, nel Medio Oriente. Persino in Cina. La metà delle turbine installate in Italia arriva da questi capannoni. "Una realtà di cui andiamo fieri", sostiene il direttore generale, Rainer Kanan, "soprattutto perché collocata al Sud, in quella parte del nostro Paese che non può certo aspettarsi rosee prospettive occupazionali". Senza contare che la produzione è destinata a salire. Entro il 2010, le direttive europee impongono infatti di elevare al 25 per cento la produzione di energia da fonti rinnovabili. In pole position, per tecnologia e capacità produttive, l'energia del vento. Ci accompagnano nel primo capannone, quello delle pale eoliche appunto, dove tutto comincia da un mantello rossastro di resina impregnato di fibra di vetro. La lunga pellicola si srotola sui macchinari, che la tagliano su misura, come fosse un abito di sartoria. Poi una "radice" tondeggiante viene fissata a mezz'aria: al centro, lo scheletro d'acciaio che si allunga per una ventina di metri e intorno al quale si costruisce l'anima della pala. Passa il "mondrino", una specie di fuso meccanico. Va e viene, legando il tutto con fili colorati, finché l'anima può essere riscaldata. Il suo forno è un impermeabile grigio nel quale tutto si salda. L'anima è pronta: la chiamano il "longherone". Si passa alla seconda fase: quella dei gusci che la ricoprono. In inglese li chiamano shell, conchiglie, nome più che evocativo. I due lunghi stampi concavi, separati e paralleli, scorrono fino a unirsi. Le cerniere laterali s'incastrano, i gusci si congiungono, fino a chiudersi, lentamente: come una conchiglia, appunto. Raccolgono all'interno il longherone, si saldano in un sottovuoto d'aria caldissima. La colla liquida scivola sulle estremità. Aperta la conchiglia, la pala è quasi pronta, e non resta che limare la colla in eccesso. Sul dorso, un minuscolo bottone d'acciaio. "È il parafulmine", ci spiegano. "Se un lampo colpisce la pala, l'energia viene scaricata a terra". Operazioni successive: verniciare, essiccare, pesare. Il colore: una tonalità di grigio leggero. Perché non rimbalzino i raggi del sole. E perché "il cielo è più grigio che azzurro", come amano ripeterci mentre avviano questa mimesi tra le nuvole. Quando tutto è finito scorriamo la pala con le mani: liscia e affilata. Altra mimesi. Acustica, questa volta, perché "basta una piccola imperfezione ad aumentare il suono". Questo vuole la tecnologia: rasoiate nel vento, sfuggenti alla vista e impercettibili all'udito. Ma quanto vento è necessario perché una pala si muova? Poco. Basta una brezza leggera. Eppure siamo davanti a un siluro da 25 metri e 2 tonnellate. Per ogni rotore ce ne vogliono tre (e il peso sale a 6 tonnellate). Il mozzo, che ne pesa 10, sarà collegato a una turbina da 20mila chili. Risultato: 32 tonnellate, poggiate su una torre, tra i quaranta e gli ottanta metri d'altezza. Incredibile: per muovere tutto questo basta che il vento spiri a soli quattro metri al secondo. Energia pura. Tecnologia avanzata. Logica semplice. Basta guardare la produzione della turbina V52, prodotta qui a Taranto e tarata per erogare 850 kw/ora. Dal vento alla lampadina Ecco la logica: le tre pale si muovono, compiono un giro e roteano gli ingranaggi della turbina. Energia meccanica. In un metro tutto si trasforma, attraverso un moltiplicatore di giri, che segue lo stesso meccanismo della moltiplica di una bicicletta: il diametro diminuisce, i giri aumentano, e innescano il generatore elettrico. Ci siamo: il vento muove la parte meccanica che trasforma tutto in energia elettrica. Il gioco è fatto. Un lungo cavo scende dalla torre e si allaccia alla rete: il flusso di energia eolica si mescola a quello generato dalle altre fonti. I gestori possono utilizzarla. E se a Taranto c'è l'unica azienda che produce impianti, in Puglia c'è anche la maggiore produzione di energia eolica: 460 megawatt accumulati fino al 31 dicembre 2006, 120 solo nell'ultimo anno. Al secondo posto la Sicilia (452), seguono Campania (417) e Sardegna (346). Il motivo è stampato su una strana mappa, l'atlante eolico, che misura la media annuale del vento. Al Sud tira più vento che al Nord. La media, fino al centro Italia, supera raramente i quattro o cinque metri orari. Il vortice d'Italia Nel Subappennino dauno, ovvero la cerniera montuosa tra Puglia, Campania e Basilicata, la media raddoppia. Il più grande parco eolico d'Italia, in teoria. Ma anche in pratica. Tanto che la giunta regionale, lo scorso anno, ha deciso di varare una moratoria, per regolamentare il mercato. Archiviata la moratoria, però, il regolamento predisposto dall'assessore all'Ambiente, Michele Losappio, prevede l'installazione di nuovi impianti. A Manfredonia potrebbe nascere il primo parco eolico off shore, per il quale la società spagnola Gamesa, già da un anno, ha avviato le analisi del vento. "Siamo i primi in Italia per produzione di energia eolica", rivendica il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola. "E vogliamo consolidare questo primato. Puntiamo a intraprendere un percorso di grande innovazione e ricerca tecnologica, anche per la bioedilizia e l'autoproduzione energetica, soprattutto nelle periferie, con l'uso di tegole fotovoltaiche. La questione ambientale è una priorità: stiamo negoziando con Enel ed Enipower per le loro centrali a carbone. Chiediamo la riduzione di anidride carbonica e un abbattimento della produzione, nei prossimi dieci anni, del 25 per cento". Già, l'inquinamento:in media, gli impianti tradizionali liberano nell'aria 650 grammi di anidride carbonica per ogni kwh. Una turbina eolica - ovviamente - ne immette zero. "Il nostro messaggio", conclude Vendola, "è talmente forte che stiamo ricevendo, dai produttori di energie rinnovabili, un'importante pressione internazionale". Continua e conferma Losappio:"Da novembre a oggi le richieste di nuovi impianti eolici toccano quota diecimila MW: potremmo soddisfare l'intero fabbisogno italiano derivante da fonti alternative. Puntiamo a una produzione di cinquemila MW e in proposito agiremo con rigore: gli impianti non devono infatti contrastare con agricoltura, paesaggio e aree protette". Come in un concerto E torniamo ai parchi eolici pugliesi. Ora li guardiamo da Taranto, attraverso un monitor, che esamina le turbine. A una a una. Orientamento verso il vento, energia prodotta in tempo reale, eventuali disfunzioni: l'intera area mediterranea della Vestas è controllata da Saragozza, in Spagna. È questa l'ultima magia: tutto il parco eolico, una trentina di elementi in tutto, può essere regolato attraverso il computer. Come fosse un maestro d'orchestra, l'ingegnere impartisce comandi a ogni singola turbina. E ogni turbina si muove. Come un girasole alla ricerca del vento. Le pale mutano l'inclinazione, per raccogliere al meglio l'energia. E per raggiungere - tutte insieme, come in un concerto - la più completa armonia.

[articolo pubblicato su D di Repubblica del 06.04.07]
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09 aprile 2007

montevergine :: villa convento :: lecce


pascareddha

intorno alla chiesetta

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08 aprile 2007

Nei misteri di Taranto


Taranto, venerdì 6 aprile 2007

La croce con il Cristo deposto, terz’ultima figurazione di questa imponente processione ha sullo sfondo l’insegna di Zara, sembra impaginata in un manifesto di pret a porter. Tutt’intorno quello che vediamo dal nostro ‘non vedere’, sono cime di microfoni, ripetitori di segnale tv, lunghi bracci di telecamere in movimento sulla folla. E subito si fa nostalgia, evochiamo il desiderio di una macchina del tempo, che ci faccia scorgere il passato, il… com’era prima. Qui, doveva essere tutto fermo, sospeso, intero con il lieve oscillare che fa il cammino delle statue, lo spettacolo non era nell’orizzonte, nelle finalità e la creatività liturgica aveva efficacia, eloquenza, un'essenzialità segnica incidente, pienamente fascinante.
Qualcuno canticchia il motivo che la banda alza, lo guardo, ha gli occhi semichiusi, un momento di partecipazione interrotto da una sirena. Il Cristo disteso ha da poco varcato l’uscita della chiesa del Carmelo, è coperto da un velo che è un cielo di stelle dorate, si ferma al comando della forcella, dietro l’Addolorata nazzica sul limine della chiesa, ancora non vista.
Ci sarà stato un tempo di devozione, un tempo di pianti, di pieno stare nel dramma? La suggestione è fragile eppure qui, il Cristo-popolo, è davvero sulla croce, i mercanti del tempio si son dati da fare!
L’Addolorata sembra sola, piano viene fuori ma i suoni son fermi e l’unico elemento di amalgama viene meno e smorza una già fragile attenzione. Si chiude la porta adesso, son tutti fuori i misteri di questa via dolorosa, tra circa 12 ore saranno di ritorno, il traccolante batterà alla porta per chiedere d’entrare.
Occhi inseguono occhi, tutti in alto, verso l’alto a scorgere oltre la moltitudine di teste, al riprendere dei suoni, anche la telecamera s’impenna, sospesa al suo lungo braccio e punta il suo obiettivo in basso. Taranto si guarda nei piedi scalzi dei perdùne. Nel loro movimento, spalla a spalla che muove i piedi come un arco, è racchiuso il tessuto drammatico di questo andare.
Sin’ora poca è stata la danza dell’Addolorata, pochi passi nel suo rollio.
C’è tempo, c’è tempo!

Intorno: nessun rigore, nessuna tenuta, nessuna austerità. L’uomo che muove la traccola (13.000 euro per portarla), apre il lungo corteo, si ferma, si gira, guarda indietro. La banda, muta, lo segue. Alcuni musicanti parlano al telefonino, altri scattano foto a chi scatta loro foto, altri ancora chiaccherano. Le poste dei portatori si mettono in posa circondati da occhi digitali.
Intorno nessuna preghiera! Nessuno osa chiedere perdono, nessuno si pente! Uno spettacolo slabbrato, senza regia per le “anime incappucciate”, le mazze, fanno su è giù, senza alcun potere, senza regole. La gente (i fedeli?!) assiepata intorno insegue il desiderio, scontenta in mille sussurri palesa il disagio.
All’arrivo nei pressi della chiesa di San Francesco da Paola, i suoni della traccola si fanno fitti e fanno eco nel rimbalzo, trovano la loro efficacia. L’uomo si apre il verso, sfonda la barriera del pubblico, dietro di lui il gonfalone della confraternita, lieve il suono delle trombe cresce, la gente è vicina tutta intorno, non più trattenuta da transenne e cordoni, invade, si mischia.
Uomini con cappotto nero sulle spalle si avvicinano sembrano sfidare “la testa dell’andare”. Parlano, all’uomo senza occhi, sfrontati mischiano il fumo delle sigarette ai papillon. Le facce dicono: che colpe abbiamo noi, da farci perdonare? E’ tutto un conversare, una rottura anarchica del rituale, con il pubblico confuso, tutto dentro la grande scena.
Tutti in posa. E ti viene da chiedere musica, musica, musica! A fare clima, tensione, meditazione.
Viene un ma(!?), s’insinua. Forse il mistero sta nel nascosto, in quello che non vediamo. Sotto il cappuccio dei perdùne, nella stanchezza delle figure, nelle lunghe pause, nelle sfide lanciate dove l’attore si confonde con ciò che porta. Stremato dal peso, abbandonato, col capo reclino poggiato alla stanga che preme sulla spalla. Pare un cristo! Allora si, forse è qui che il rito tiene: in una trance che cresce, calibrata, tutta interna a quell’interminabile nazzicare che disegna il cammino.

Nell’oscillare è la chiave di una perdita che cresce l’incanto devozionale, la magia del darsi, del farsi sacro. Pura carne della rappresentazione. Santa è la fatica, lo sforzo, il dolore consumato in un’espiazione, chiesta e pagata a caro prezzo, aggiudicata in un’asta milionaria il giorno della domenica delle palme.
In una lunga nota tenuta dai clarini, facciamo il saluto, al cospetto del nero d’una madonna che alza al cielo un rosso cuore trafitto, che dice che si, andiamo al riposo, siamo soltanto a metà del cammino e nulla è risolto!
Per noi tutti i misteri di Taranto rimangono senza perdoni!
Guarderemo al mattino in diretta tv, tutto si ricompatta, trova ordine, liturgia, sacralità… Che forza la televisione! Buone inquadrature, buone pause e sospensioni nel dire, ci confortiamo, nulla ancora è perduto!

MM

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01 aprile 2007

La magia dei Canti di Passione


Scrive Giuse Alemanno nel suo “Terra nera, romanzo perfido e paradossale di cafoni e d’anarchia”, che “per i meridionali, le cose che mancano valgono come le cose che ci sono. Le assenze si considerano presenze mancanti, le negazioni sono affermazioni ribaltate”.
Entro nella bellissima chiesa del Convento degli Agostiniani a Melpignano -un luogo chiave della Storia salentina, non tanto per la contemporaneità tarantista, ma perché retroguardia della otrantina basilica di Casole e scriptorium d’eccellenza nel mondo antico- e mi porto dietro questo pensiero.
Le cose che preparano la Pasqua, con la sua mitologia rigenerativa, sono senz’altro una delle dimensioni riturali più radicate ed articolate nella vasta gamma delle tradizioni folcloriche. Quel guscio d’uovo che rompiamo senza attesa e stupore per il dono celato, è la piccola cosa che rimane alla superficialità consumistica di noi moderni.
Nella mancanza che contempliamo, nello splendore di questa chiesa, le ‘cose’ erano diverse, certamente mosse da una ‘preghiera’ forte e sofferta, con una sincerità d’intenzioni che rendono sacro, oltre il sacro, quella pietas contadina che era capace d’essere devota e anarchica al tempo stesso. Vera essenza della nostra madre terra salentina.
Il passaggio adesso è di sapienza. Dagli ‘ultimi vecchi’ ai giovani. Fare semenza alla tradizione, il monito. Nell’invenzione di atti utili a dare vigore e nuovo legame alla comunità. Calibrare le voci, affinare la lingua in una comunicazione essenziale che non si svilisce nel cercare pubblico, nel farsi evento. Questo il pregio dei Canti di Passione, che Luigi Chiriatti, Gianni De Santis e Sergio Torsello concertano per l’Unione dei Comuni della Grecìa Salentina in concorso con l’Istituto Diego Carpitella, la Provincia di Lecce e la Regione Puglia.
Un vero e proprio festival di primavera! La politica della promozione territoriale trova nel “cuore griko” del Salento le sue migliori qualità. I Canti di Passione sono come la palma d’ulivo posta alle spalle dei cantori sull’altare: un valore plurale. Come i fiocchetti colorati e le immaginette della santeria appese, popolate anche quelle da diversità convergenti. Un universo d’immaginario dove i simboli si mischiano all’esperienza umana, quella dell’uomo che a devozione si raffigura nel Santo, che prega e invoca raccontando la comune “passione”. C’è il Sud qui. Tutto il sud del Mondo. E’ in questa vicinanza materiale di tradizioni che si consuma il rito.
Una ritualità che si rinnova, portando la sua forza suggestionale al di fuori dei recinti devozionali e allarga il sentire a chi per costume e credo a quel recinto è estraneo. Quest’ascolto non può essere superficiale, ciò che accade non lascia indifferenti. Nel tutto aperto del canto vedi intero l’uomo che si fa voce, suono, vibrato armonico. Lo vedi sollevarsi, farsi tramite. Proteso, tutto al servizio. C’è lo sforzo antico del popolo che si apre al divino nella concretezza, nella materialità dell’atto. Un’ingenuità densa di timore e di orgoglio. Pura potenza che rende grazie all’albero dell’eterna vita che ha radici conficcate nella terra e rami e fronde protese, che vanno al cielo, in redenzione. Nel popolo il Cristo traversa la sua via crucis ed è il popolo che lo incarna, tutto votato al poco, che fa il canto volgendosi alla comunità, per strada, luogo civico dell’incontro, luogo laico dove si può dire, alzare la voce, gesticolare, raccontare. Fuori dall’osservanza nella piena comunione. Dove ciò che è perduto ritorna ed ogni mancanza si riproduce in malinconia, in rimorso. Nella chiesa di Melpignano il silenzio è denso. Tutti partecipano trasportati dalla forza delle voci. Quello il tramite autentico di contatto con ciò che ci trascende.
E nella mescla contemporanea incarnata da Antonio Castrignanò e dal suo ensamble, senti come i rimandi delle culture s’intersecano nella piena consonanza segnica. Mancanza e melanconia sono struttura, respiro d’anima e di pancia . E l’incedere di una banda sfoga l’unicità del pianto. Il travaglio del Mondo è dovuto al male che si dice e al male che si fa e il motivo dei Canti è di ricordare che la pena che patì il Signore sulla croce fu per un Mondo di pace.

MM
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SIDEROFONO RAUCO oggetto sonoro di
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