29 ottobre 2007

...lungo le rotaie


La filosofia delle stazioni ha in Sergio Rubini regista (alla sua opera prima, nel 1990), uno dei suoi più efficaci narratori. La stazione è una piattaforma di viaggio, spesso da fermi. Alla stessa maniera le stazioni di Trenitalia o Sud-Est, che attraversano la Puglia collegandola, vanno mutando volto e s’avvicinano creativamente a un’idea di trampolino di volo musicale, artistico, sociale da compiere in special modo nella provincia assopita e dimenticata.
I luoghi. Caselli dismessi o appartamenti ormai vuoti nelle stazioni possono avere una seconda vita e a stabilirlo è stato anche un accordo tra l’Assessorato ai Trasporti della Regione e Trenitalia. A Latiano già da un anno è attivo il centro “La stazione”, chiamato così perché di una di queste occupa il piano superiore, quello un tempo destinato alle famiglie dei capostazione. “L’abbiamo chiamato così per evitare equivoci e perché così l’avrebbero chiamato inevitabilmente tutti, prima o poi” racconta il responsabile Felice Cariolo che la gestisce per conto della associazione Sole d’Oriente. E’ questo un progetto pilota in Puglia che presto, per quel che riguarda Trenitalia, sarà seguito da altri già in corso di valutazione. “Il nostro compito –aggiunge Cariolo- è quello di tenere pulita la sala d’aspetto negli orari nei quali sono previsti passaggi di treni, mansione cui assolviamo con piacere. Anche perché è nel nostro interesse. Da quando ha ridimensionato la stazione di Latiano che non ha più qui una biglietteria, Trenitalia ha affidato i locali al Comune che, a sua volta, li ha passati in comodato d’uso ai ragazzi. Ne hanno fatto una sala prove da 3 euro all’ora, insonorizzata e climatizzata, con un sistema di amplificazione per le band. Qui sono a disposizione anche sale multimediali e corsi di chitarra, basso o cineforum.
Il progetto Sud-Est. Anche le ferrovie Sud Est, pur non essendoci ancora un accordo ufficiale con la Regione, stanno capillarmente riconsiderando il senso delle loro proprietà. “Ci sono una serie di caselli, case cantoniere, appartamenti ormai disabitati che ci vengono richieste e che stiamo concedendo alle associazioni –spiega Maurizio Rizzo dell’Ufficio Patrimonio Sud Est- Per noi è una maniera di rendere le stazioni più frequentate, metterle a disposizione del territorio e ricavarne anche un ritorno d’immagine. Ed in questo siamo in linea con la volontà espressa dalla Regione”. L’affidamento avviene, in questo caso, in concessione d’uso oneroso, direttamente alle associazioni che corrispondono alle Sud-Est un affitto minimo o garantiscono lavori di ristrutturazione. Sulla mappa del recupero scorrono la stazione di Conversano, affidata all’associazione Sudest Donne, quella di San Michele all’associazione Plurale e, quindi, Putignano e Noicattaro con due impianti affidati ai Comuni per iniziative teatrali. Scendendo a Sud oltre a Gallipoli (casello gestito dall’associazione Premio Barocco con la Protezione civile), a Melissano il casello è diventato “casa culturale” di una comunità di recupero e ad Acquarica del Capo di un gruppo di diversamente abili.
Il futuro. Tra le più recenti acquisizioni c’è quella del casello di San Cesario di Lecce. A occuparsene sarà Hotel Albania, vivace gruppo di artisti-musicisti, nonché etichetta discografica guidata dall’ottimo trombettista salentino Cesare Dell’Anna. “I lavori cominciano tra una settimana e poi partiamo con le attività. Andremo come un treno” garantisce entusiasta. Mentre è già attivo da qualche tempo Casello 13 associazione voluta da Pino Sansò, ex ferroviere ed ex sindacalista Cgil, particolarmente interessato allo sviluppo di questa politica d’affidamento per scopi associativi. Casello 13, a Copertino, cura iniziative d’arte, cultura, musica, attività, servizi. Tra le iniziative più importanti, il censimento delle cappelle votive rurali sul territorio, il recupero di alcune di queste rese poi visibili con passeggiate a piedi, a cavallo e in bicicletta. Tra le ultime e più importanti battaglie di Casello 13, ricorda Ambra Biscuso, operatrice culturale ed editrice con Il Raggio verde, ci sarà “la denuncia finalizzata a salvare la millenaria abbazia di Casole di Copertino, luogo ricco di spiritualità e storia che si sta danneggiando per mano dell´uomo più che del tempo”.

antonella gaeta

Parlano i suoi quadri (forti, dolenti, decisi), parlano le sue poesie che sono graffi all’anima. Ma, soprattutto, parla Puccetto pittore, poeta e casellante da ventidue anni della stazione Sud-Est di Tricase-Tutino. “Il casello lo amo –racconta alla sua maniera, viscerale- le pareti sono per me specchi e l’edificio è una persona alta due piani”. Puccetto non lascia mai il casello “se non quando le penne si consumano e i pennelli anche”. A notte fonda, è parte integrante di questo luogo che, in qualche maniera, l’ha salvato. E’ tornato qui dopo un lungo pellegrinaggio per le vie d’Europa, redento dalla sua terra ma, soprattutto, dal suo straordinario fuoco creativo. Dipinge (o come preferisce lui “imbratta”) alla Pollock, facendo cadere tagli di colore sulle tele e i suoi lavori hanno richiamato l’attenzione della Galleria Sempione di Milano, della Galleria Rossi di Bologna e della Rex di Fiuggi. E un paio di occasioni clamorose delle quali preferisce non parlare. Forte personalità che non poteva non attirare chi di storie così vive. Antonio Rocco D’Aversa, classe 1957, è diventato così uno dei protagonisti del film “Italian Sud Est" dei Fluid Video Crew . Ma ora Puccetto (“nome comune di cosa”) s’aspetta di più. Presto tornerà la troupe del regista franco-algerino Rachid Benhadj (“Il pane nudo”) che su di lui sta girando un documentario. Mentre tra le ultime visite importanti al suo casello-laboratorio c’è quella di Giuseppe Bertolucci. Lui non si scompone, a malapena ne ricorda i nomi che segna su foglietti, continua a dipingere e, soprattutto ultimamente, a scrivere. Ho finito ieri un’autobiografia”. La parola passa agli editori. a.g.

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23 ottobre 2007

Le cave quell’indelebile “sfregio cicatrice” che l’incuria e la dimenticanza hanno reso discarica.


Il manifesto in gergo grafico si chiama doppio elefante: 100 X 140 cm., una campitura di cielo notturno, il paesaggio in basso era tagliato nel giallo della pietra, il mare, una torre e il saluto di un uomo rivolto ad oriente! Il segno inconfondibile di Francesco Spada inaugurava la prima volta di uno spettacolo in una cava. Era il 1992, tra Cursi e Melpignano andavano in scena i Canti Orfici, il ritorno di Carmelo Bene nella sua terra, dopo lunghi anni di stizzita assenza. Era quello anche l’inizio della stagione ancora inesausta dell’affermazione di una particolarità territoriale, e il Salento proprio nella pietra trovava una leva possibile di rilancio e di affermazione.
Oggi lo “Studio dAM - architettura materia e ambiente” (www.studiodam.eu) di Roma è stato incaricato dalla Regione Puglia di progettare la riqualificazione delle cave pugliesi dismesse. Il progetto dei tre giovani architetti romani Paolo Cannata (laureato a Roma nel 2002), Linda Gaia Roncaglia (laureata a Roma nel 2000) e Marco Scarpa (laureato nel 2003 allo IUAV), interessa sei ipotesi di restauro del paesaggio pugliese ed include le porzioni dismesse delle cave di Cursi, da destinare a parco tematico museale, e di Maglie, da riconvertire in area agricola sperimentale per lo stoccaggio di ecoballe.
Progetti, che pur corrispondendo ad una necessità territoriale, appaiono calati dall’alto, ‘spalmati’ su un territorio che con le cave ha un rapporto complesso e contraddittorio. Da un lato la forte suggestione che esercitano su noi abitanti di pianura, che in esse pratichiamo lo sprofondo e la vertigine, e dall’altra la densità di una memoria fatta di dura fatica che allontana e disincanta.
Cursi: “Territori di Pietra” e le notti di San Lorenzo, le “Visite ai Giardini di Pietra”, l’Ecomuseo e il Parco delle Cave, l’Osservatorio Nomade, il progetto Egnatia, le pietre di scarto e Mare emerso, nomi a caso? No, segnano la linea di un progetto reale che in un ciclo più o meno ventennale ha attivato riflessioni, accadimenti, ha coinvolto sensibilità, sedotto pensieri e pratiche intorno alle cave.
In realtà tutte false partenze se non sono state capaci di maturare una coscienza ed una organizzazione tali da riversarsi concretamente sul territorio, dando corpo e realtà ai desideri progettuali di quei tanti nomadi, salentini e non, in cerca di un territorio dove dare campo all’arte e alla ricerca, sperimentando nuovi equilibri tra habitat e comunità.
Da questo giornale si è lanciato l’allarme su come la pietra salentina non sia tutelata ed accompagnata sul mercato, di come le opere di un design evoluto siano snaturate nella loro essenza ed unicità da chi non ha il rigore, l’educazione e la disciplina necessaria per inventare e per creare.
Siamo alle solite! Di chi è la responsabilità? A chi è dovuto costruire le regole e la sovrastruttura a garanzia, a riconoscimento e a tutela del fare?
La risposta c’è, questa volta la facciamo rimanere tra le righe!
Rimaniamo all’incanto delle cave: “La strada si inoltrava nella campagna disseccata e desertica tra il frinire assordante delle cicale e si inabissava verso il fondo delle cave che quasi da ogni lato circondavano la città come un vallo irregolare e ne costituivano in negativo la misura, perché da lì proveniva tutta la pietra con cui nei secoli erano stati edificati e chiese e palazzi e case e fortificazioni, quasi che la città stessa fosse stata generata dalla terra e la terra di quella faticosa generazione serbasse il segno, l’indelebile sfregio/cicatrice.” L’immagine è tratta dal racconto “Le volpi e le fate” di Giovanni Pellegrino, una descrizione dell’intorno di Lecce che vale per l’intero territorio talentino, fatto di quel “quasigiallo quasirosa che la pietra delle nostre case acquista sotto il sole della primavera e conserva sino alle prime piogge d’autunno, la nostra pietra così tenera, così duttile sotto lo scalpello degli antichi artigiani, così arrendevole alle offese del tempo che profondamente assorbiva il calore del giorno e subito cominciava a restituirlo non appena raggiunta dall’ombra del pomeriggio…”.
Tante cose è la pietra, è bene non scordarlo!

MM

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20 ottobre 2007

La zona industriale di Lecce, ah! Che male agli occhi!

Su un furgone per anni ho attraversato l’Italia, ho avuto occhi per guardarla in molte sue pieghe.
La casa e il lavoro in un teatro di Romagna, il cuore e gli ideali cresciuti nelle Marche, zone operose, dense di lavoro, di passione e di sapienza, dove le tante attività si coniugano in un’armonia sorprendente. Una tenuta del paesaggio che sistema i comparti produttivi senza macroscopici squilibri, capacità frutto di una dedizione al “bene comune” che le rende tra le regioni più ricche d’Italia. Oggi, viaggio molto meno, gli occhi l’investo in un guardare attento alle cose di qui, mortificato spesso dallo spegnersi della bellezza: il Salento è un territorio aggredito dall’incuria, senza indirizzo. Anche lì dove dovrebbe mantenere una tenuta d’immagine rovinosamente crolla, non tiene. Non si guarda! Governato da una classe dirigente superficiale e litigiosa, spesso inconcludente attenta solo al proprio senza orizzonti e prospettive.
Guardiamo la zona industriale di Lecce, una bruttura, una totale desolazione.
Direte: “…ma una zona industriale non rappresenta la città, sta ai suoi margini, nascosta, trafficata solo da camionisti e manager”. Non è così. Una zona industriale rappresenta lo spirito e l’operosità di una comunità e lì che la sua classe imprenditoriale si rappresenta.
Prendete un piccolo segmento del calzaturiero marchigiano: Montecosaro Scalo, angolo remoto dell’Italia che sa cos’è la fatica e l’impegno civico. Sede di industrie, grandi e piccole, molte nate da gente di campagna che ha saputo riconvertire il “tempo lavoro” dando corpo e sostanza a quel “modello marchigiano” studiato da economisti e sociologi. Una filiera complessa ed articolata che ha in affido il territorio. Le rotatorie, le strade che immettono nelle zone industriali sono curate dalle aziende. Il “pratino”, i fiori, la segnaletica, le insegne, gli stabilimenti, segnano un decoro che rappresenta una volontà di benessere e di buon vivere al di la di ogni superficialità. La bellezza non è l’impermanente conforto del consumo è la rassicurazione di stare in un luogo che sa organizzare la sua vita, redistribuisce la ricchezza, attenta a non tradire la qualità territoriale.
Oggi scopriamo che i nostri industriali manco pagano l’acqua, che il loro consorzio è fortemente indebitato, condizione cronica prodotta da anni e anni di pressappochismo e di disinteresse. Che dire?! Pare vano chiedere loro uno sforzo per dare volto ai territori che li accolgono, un’utopia! Concetti astratti! Cosa mai potrebbero comprendere?

MM

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16 ottobre 2007

fiori d'agave


SIDEROFONO RAUCO oggetto sonoro di
  • antonio de luca



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