20 ottobre 2007

La zona industriale di Lecce, ah! Che male agli occhi!

Su un furgone per anni ho attraversato l’Italia, ho avuto occhi per guardarla in molte sue pieghe.
La casa e il lavoro in un teatro di Romagna, il cuore e gli ideali cresciuti nelle Marche, zone operose, dense di lavoro, di passione e di sapienza, dove le tante attività si coniugano in un’armonia sorprendente. Una tenuta del paesaggio che sistema i comparti produttivi senza macroscopici squilibri, capacità frutto di una dedizione al “bene comune” che le rende tra le regioni più ricche d’Italia. Oggi, viaggio molto meno, gli occhi l’investo in un guardare attento alle cose di qui, mortificato spesso dallo spegnersi della bellezza: il Salento è un territorio aggredito dall’incuria, senza indirizzo. Anche lì dove dovrebbe mantenere una tenuta d’immagine rovinosamente crolla, non tiene. Non si guarda! Governato da una classe dirigente superficiale e litigiosa, spesso inconcludente attenta solo al proprio senza orizzonti e prospettive.
Guardiamo la zona industriale di Lecce, una bruttura, una totale desolazione.
Direte: “…ma una zona industriale non rappresenta la città, sta ai suoi margini, nascosta, trafficata solo da camionisti e manager”. Non è così. Una zona industriale rappresenta lo spirito e l’operosità di una comunità e lì che la sua classe imprenditoriale si rappresenta.
Prendete un piccolo segmento del calzaturiero marchigiano: Montecosaro Scalo, angolo remoto dell’Italia che sa cos’è la fatica e l’impegno civico. Sede di industrie, grandi e piccole, molte nate da gente di campagna che ha saputo riconvertire il “tempo lavoro” dando corpo e sostanza a quel “modello marchigiano” studiato da economisti e sociologi. Una filiera complessa ed articolata che ha in affido il territorio. Le rotatorie, le strade che immettono nelle zone industriali sono curate dalle aziende. Il “pratino”, i fiori, la segnaletica, le insegne, gli stabilimenti, segnano un decoro che rappresenta una volontà di benessere e di buon vivere al di la di ogni superficialità. La bellezza non è l’impermanente conforto del consumo è la rassicurazione di stare in un luogo che sa organizzare la sua vita, redistribuisce la ricchezza, attenta a non tradire la qualità territoriale.
Oggi scopriamo che i nostri industriali manco pagano l’acqua, che il loro consorzio è fortemente indebitato, condizione cronica prodotta da anni e anni di pressappochismo e di disinteresse. Che dire?! Pare vano chiedere loro uno sforzo per dare volto ai territori che li accolgono, un’utopia! Concetti astratti! Cosa mai potrebbero comprendere?

MM

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