25 agosto 2009

atto d'amore


[21 agosto, a portu russu. atto e foto: vs]

C'è uno scoglio bellissimo a Badisco, nella 'piega' di Portu Russu. La pietra in alcuni punti si tinge, fa ruggine, come se avesse assorbito la sostanza della terra, cade a picco concedendo piccole terrazze alla sosta. Un'insenatura stretta, che quieta il vento e calma ogni corrente. Giorni fa un grande banco di pesci la riempiva e il fondale sembrava un prato da brucare. Vi lascio immaginare lo scintillio sott'acqua, i guizzi e le manovre repentine che s'aprivano come s'aprono i fuochi d'artificio nei nostri cieli nelle notti dei Santi. Di luoghi così la costa salentina è piena, ognuno con la sua particolarità con la sua intima bellezza. Ognuno, se lo andate a visitare in questi giorni di fine estate, 'ferito' dall'incuranza. Lo scoglio di Portu Russu lo trovate tutto ornato da cicche. L'accanimento del vizio si sa, rende insensibili e molti sono i fumatori in costume da bagno: che cosa c'è di meglio di una “bbella sigaretta” prima e dopo una nuotata? Tanto altro di sicuro! Ma il vizio è vizio, non si governa. E non si governa tutto quanto ne consegue per cui, visto che si è en plain air, che gusto lasciar di sè traccia e via, ogni sigaretta fumata è una cicca abbandonata, da incastonare con cura e dovizia nelle fessure, negli incavi, negli spacchi dello scoglio. Che ossessione!

Una pubblicità in questi giorni è stata veicolata sulle pagine dei maggiori quotidiani, raccontava l'inquinamento di una spiaggia. C'era la sabbia e poi tutto ciò che normalmente, con assoluto 'candore' scegliamo di abbandonarvi, a corredo informativo dell'immagine i tempi di biodegradabilità: un fazzoletto di carta 'scompare' in 4 settimane. Poco no? Confortati?! Continuate a leggere... Ma prima di dare i numeri, voglio informarvi che la piega di scoglio di Portu Russu, è stata con un atto d’amore riportata alla sua integrità e bellezza (vedi la foto). Un atto d’amore che auspichiamo divenga contaggioso e si propaghi, divenendo comportamento comune. Modo del viaggiare e dello stare nei Luoghi. Un quotidiano ci mette 6 settimane mentre una rivista patinata 8 - 10 mesi. Uno sciocco fiammifero 6 mesi, un accendino 100 anni. Un mozzicone di sigaretta 1 anno e più, una sigaretta senza filtro (grazieaddio!) 3 mesi. Un chewing-gum 5 anni. Una lattina di alluminio 10 anni. Un sacchetto di plastica 500 anni e più; stoffa e lana ci mettono dagli 8 ai 10 mesi e orrore il tessuto sintetico 500 anni e più. Una bottiglia di plastica 'resiste' quasi 100 anni. Gli assorbenti e i pannolini 200 anni. Le carte telefoniche 1000 anni mentre il tempo delle bottiglie di vetro è indeterminato. Leggo che il vetro è il materiale più importante da riciclare perché per produrne una tonnellata ci vogliono 1,1 tonnellate di sabbia, soda, calcare e grandi quantità di energia ed acqua. Riciclandolo si risparmia circa il 95% delle risorse utilizzate quale materie prime. E ancora che i bastoncini di cotton fiock che vediamo sulle spiagge sono quelli gettati nei water, che galleggiano nei nostri mari e nei nostri fiumi per anni e fanno soffocare i pesci. I sacchetti di plastica che non vanno in discarica e che finiscono nei nostri corsi d’acqua portano gravi conseguenze agli animali che li abitano che ingerendoli accidentalmente muoiono soffocati. E ancora tanto altro se si cerca in giro la giusta informazione su quanto accade in questo tempo sciagurato!

“Mai più turisti” ho scritto ieri, titolando un corsivo dedicato all'Estate Salentina. Già, “mai più” pensiero suicida per una terra che vuole votarsi all'Industria Turistica. Che tanto apprezzerebbe divenire mèta e mira di tour operator. Si consumano parole, proposizioni, progetti. Si dice 'Turismo Di Qualità' (che fa “chic e very nice”) ma non 'Turismo Sostenibile' o 'Turismo Responsabile'. Si invitano le persone a consumare, consumare, consumare ma non a rispettare l'oggetto e il luogo della loro consumazione. E allora, si può pensare di trasformare questo arrembaggio scomposto e scamiciato in un approdo cosciente e consapevole. C'è differenza fra turista e viaggiatore? Ci sarebbe da riflettere. In quella differenza potremmo trovare la chiave di una politica dell'accogliere non più soggetta alle regole del mercato ma forte della sua virtù e della sua particolarità.
MM

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23 agosto 2009

Come se il rimorso...

Ci vediamo a Melpignano!

Non si dà pace l’amico Fernando! Lo prende un nervoso che lo riempie di macchie rosse. Una reazione allergica che necessita di spiegazioni ‘filosofiche’ per quietarsi. Si danna, per questo Mondo che non riconosce più. Per la sua terra salentina che non riconosce più. Per gli ‘umani’ intorno che non riconosce più.
Mi dice: «Se stanno qui a sentire questa musica che raccomanda memoria, accudimento, legami profondi com’è poi che ti travolgono con il loro desiderio di consumare, consumare, consumare? Se scelgono questo mare, questo paesaggio, questi odori com’è che poi tutto tradiscono con carte, cicche, plastica, vetri e con i loro comportamenti sciatti, irrispettosi, tracotanti?».
Non si dà pace! Vorrebbe gridare, scamiciarsi, urlare. Mai dimentico dell’antica dignità delle cose, nella nostalgia lui trova. Ancora trova, la grande barba del sapiente e la semplicità di sua madre. La camicia bianca del padre e l'odore forte della terra. Anche l'avventura trova con le fughe, curiose di stupore.
Si ferma, l'amico Fernando, vulnerabile e sconfortato, come la sua terra salentina fa silenzio. E ascolta, e guarda preso dai corpi, dai suoni! È più forte di lui! Come se quel ‘rimorso’ di cui tanto ha tanto sentito, letto, sperimentato ora riguardasse non più uno solo, o una, innamorata e persa, ma tanti. Tanti. Lui e tutti quelli intorno. Tutti, proprio tutti, nessuno escluso.

Ci vediamo a Melpignano? È oggi che accade! Torna!
La luna è spicchio in cielo. Tenue falce di luna nuova. Fa nascita, auspicio! Confonde col suo mistero un inteso grigio arancio e il sole, vien giù, sprofonda! Si fa Notte.
Ci vediamo a Melpignano, lì c’è la danza, quella che tutti cercano: quel continuo invocare l’amore… il sapore del sale lo assaggio, con la lingua mi lavo il mare!

‘Nnanana nnanana beddhu è l'amore e ci lu sape fa
ballati tutti quanti e ballati forte...

Ah! la bua!!! Il male, la malattia. Quale l’antitodo? Alla bua, alla bua! Che dire al tormento, al 'non' che prende e tradisce?
«Amate la vostra dignità di uomini anche se chiusa nell’incertezza della carne» raccomanda accogliente l’oracolo Cristoforo.
Ci siamo,
siam giunti, l’Orda d'Oro ci porta, ecco Melpignano.
«La scorgi la Santa Chiesa? La vedi? È la stessa che apre la Taranta di Mingozzi, ricordi? Il tremolare dei titoli in bianco e nero, il testo di Quasimodo che fa il racconto ed una terra remota appare, bianca, secca secca. Una strada, un carretto e le rovine del Tempio. È questo di adesso che vedi dipinto di luci».
Se assaggio i suoni mi viene sapore di sacro – la teoria delle bancarelle, l'odore di nocciole e di zucchero filato – nutre lo spacco del cuore, il solenne d’una banda. Lo inseguo e trovo angeli sospesi alla luce con quelli di ieri senza nome nell'inchiostro della cronaca: angeli neri, persi nel mare, nell’abbandono.
Non c’è sorriso e c’è! Non c’è identità e c’è! Non c’è paura e c’è.

Ogni cosa impasta il suo credo. E lo vedi il terrore mischiato alla gioia. È tutto sul bilico! È questa vertigine la cultura: ogni atto è essenziale. Ogni cosa vale, scrive. Anche ciò che presto si dimentica è prova.
«Non senti i suoni ‘legati con gli spaghi’? Gli stornelli del ringraziamento?». “La ricchezza mia è la sanità” cantano e il vecchio Aloisi ringrazia i medici del reparto di Ortopedia dell’Ospedale di Galatina (di Galatina, dove opera Santu Paulu) che gli hanno permesso di salire sul palco della grande Notte. “Na, e na, e na” le voci alla stisa fanno il graffio e quelle dello spettacolo s’insinuano. “Che vita infamata è stare carcerata per un'eternità” oppure senti “ca se eri l'amante miu nu me tarantava ieu”. Ecco la chiave: se eri l'amante mio... io ero salva. L'amore ancora, il sentire profondo che le evita d'essere tarantata, d'essere posseduta dalla mancanza.
La terra salentina è tarantata adesso, è 'lei' nel cercare. Non ha quiete, non ha passo di danza che possa salvarla, non c'è l'indiavolata del violinista barbiere ad accogliere. Non ci sono più i passetti del perdimento sul damasco di Maria, nell'intimo della casa. Quella rappresentazione, quella tragicità, quella volontà di un oltre di quiete.
Non c'è! Manca! Adesso quel ri-morso, cerchio del dolore, s'è fatto largo, capiente. È festa soltanto. Soltanto festa?

“La patria e l'amicizia è il primo amore”, qualcuno canta dal palco e sulle corde leggere delle mandole e dei violini corre ciò che mischia. «Li senti i nomi?»
Fabrizio, la Fernanda, il maestro Stifani. Anche loro angeli. Custodi del nostro altroculturale. Vogliono che sia sostanza di coraggio. Non è questo la festa? Rinnovamento: osare, sempre vivi, esserci! Cercare quello che non sappiamo, che forse non sapremo mai, ingoiato nei segreti della notte d'ognuno. Mistero di grilli, di cicale addormentate e di stelle, a volte cadenti, a portare desideri, il mai, il forse. La speranza insomma che mai rimorso dovremo avere per il non che manca all'amore.
I minatori di Santa Fiora, l'angelica d'Africa, e la furia di stella Z ci aiutano a rifare la Puglia. Ehi! L'acqua nu la menare, provaci. Proviamoci a salvarla e con lei... il 'ragazzino'!

Lasciato Fernando, rifletto: il repertorio e gli interpreti. Questi gli ingredienti della Notte della Taranta. Un cammino di dodici anni che ha scommesso sulla certezza di crescere. E via via la crescita c'è stata, indubbia, assoluta. Unica, in una scena ormai affollata di eventi che inseguendo confondono, strafanno, senza alcuna economia e chiarezza di orizzonte. Dodici anni. S'invoca il cambiamento. Utile? Forse sì, forse no! Il passo preso dalla ricerca e dagli interpreti dimostra d'essere emancipato e libero da qualsiasi soggezione al suono “solito” della Tradizione. E allora, accordarsi alla ricerca, che muove le produzioni d'ognuno di loro, può essere via da praticare per un rinnovamento sostenibile ed attento all'essenziale.

MM

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27 aprile 2009




torre sant'emiliano. litoranea otranto–porto badisco.

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14 ottobre 2008

il piacera della canzone

"Musica Moderna vuol dire proprio questo.
Non c'è alcuna modernità in quello che musicalmente stiamo vivendo oggi.
Il futuro è ancora solo un'idea, non si è mai raggiunto
e tutto gira ancora intorno a cose già viste, passate, ancora non vecchie.
Come in un film di fantascienza degli anni Cinquanta"

- Ehi! , mi fai un regalo, prima di tornare a casa prendi il nuovo cd di Fossati!?
Ivano Alberto Fossati di 33 giri e di cd ne ha fatti più o meno ventisei, il primo Lp nel 1971, con i Delirium, senza contare le tante collaborazioni.
L'attesa dura più o meno un anno, certe volte due, poi l'uscita e i fan si preparano all'ascolto.
Un rito che si ripete: l'acquisto, rigorosamente di un originale e... a casa di filato, togli il cellophan, apri la confezione... veloce, fino al play.
E poi, pian piano esplori.
E' sempre così con un disco nuovo: distilli l'ascolto.
Pian piano, a gustare sino in fondo, conoscere le parole, gli incisi sonori, le variazioni ritmiche.
Impari il testo, lo canti, poi solo viene in mente, sussurra, ti prende.
- A me non piace Fossati, dice una al banco di Pick Up, è sempre uguale!
Già, 'è sempre uguale'. Sta qui il mistero: quel 'sempre uguale' ti canta l'anima.
Se no 'uno', un autore, perché ti piace, ti convince?!
Ti dice parole e ti fa dire parole. Questo è la canzone, la poesia cantata.
“Musica moderna” (Columbia, 2008) si chiama il nuovo lavoro del cantautore genovese, undici canzoni che attraversano la memoria, raccontano storie, sussurrano sogni e parlano di un mondo, ancora forse, troppo veloce, un viaggio attraverso suoni diversi, che si inseguono senza una continuità melodica definita.
Ed è proprio 'moderno' il suono che ascolti, quello 'classico' che gli è proprio. La sua geometria compositiva attraversa con sapienza il canone melodico del rock. Musica moderna, appunto. Genere conosciuto, ampiamente socializzato, pop (popolare), con le “conseguenze” vocali, le entrate corali e i soli che modulano ed educano l'ascolto. Il sax a fare le coloriture, il controcanto, l'organetto di Riccardo Tesi, la cornamusa e i flauti fanno il viaggio, organizzano ciò che è del corpo! Della danza! C'è tutto, 'sempre uguale'. Tutto ciò che serve a raccontare storie. Ciò che serve a quel cantare, a quella voce.
Sottolineature, pause, ritorni ritmici, rif melodici, sapienze compositive tutte volte tutte al dire della poesia. Da chansonnier, autore poeta. E' qui la chiave di comprensione di Ivano Fossati, di quel 'sempre uguale': la canzone, il piacere di cantare, di dispiegare la canzone, di suonarla.
E Fossati oltre che poeta è anche filosofo-politico, educatore civico volto al pubblico. Divulgatore di anima quando canta l'amore e la fragilità, di civico sentire quando leva il canto “sociale”.
“Musica moderna” racconta di un mondo troppo veloce, popolato da esseri affrettati e persi dietro un'idea di futuro che rischia di diventare pericolosamente insipido, stupidamente autocentrato, "spazzatura". Parla di tv, gossip e processi mediatici ('Il paese dei testimoni'), così come del problema dell'acqua e dell'incetta delle risorse idriche da parte delle multinazionali ('La guerra dell'acqua'). Racconta sogni occidentali fatti dall'est, dalontano, dove il mondo è ancora immerso nel passato ('Last minute'). E parla d'amore. Dell'amore appena nato, emozionante, con tumulti allo stomaco ('Miss America'), fino all'amore acquisito, celebrato e trascurato ('D'amore non parliamo più') a a quello dichiarato e romantico ('Musica moderna').

MM

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14 settembre 2008

la Zonda


Ciao sono Andrès, sono italo-argentino. Vi parlerò di un vento molto forte: la Zonda.
La Zonda é un vento che soffia spesso sulle pendici orientali delle Ande, in Argentina, e colpisce principalmente alle provincie di Mendoza, San Juan e La Rioja, tutte loro situate al ovest del paese.
La Zonda è un vento molto secco e polveroso, é proveniente dal Polo Sud, dal Pacifico, che si riscalda con discesa dalle pendici delle Ande. Può superare i 120 km/h.
Questo vento può produrre brutte conseguenze per le persone e per le cose, perché raggiunge la forza di uragano, ha bassa umidità, la polvere riempie tutti i nostri impianti, colpisce la maggioranza delle persone, colpisce principalmente l'apparato respiratorio.
In materia di ambiente, è un vento che solleva la temperatura a 30 gradi anche in inverno, a volte produce degli incendi, a volte fa saltare i tetti di lamiera e legno, produce caduta di alberi, produce anche la caduta di linee elettriche.

[testimonianza raccolta da "l'araba fenice"]

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11 agosto 2008

subsalento




fotografie di sergio longo

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31 luglio 2008


Oggi, 30 luglio 2008, è morto a Paris - St. Denis, Georges Lapassade

Era nato il 10 maggio 1924 ad Arbus, un piccolo villaggio nei Pirenei, nel sud della Francia e fra i suoi ultimi desideri ha espresso quello di tornare lì, ma ciò non è stato possibile a causa delle cattive condizioni di salute che da anni lo costringevano alla dialisi e che recentemente lo hanno visto spegnersi senza forze. Amava, cantava e voleva sentire cantare "le temps des cerises", il canto della Comune di Parigi. Amava vedere i giovani suonare, ballare fino alla transe. Amava gli Gnawa del Marocco, i "pizzicati" del Salento e i tenores e il ballo tondo sardo. Amava tutti quelli che ha stimolato e aiutato a studiare e imparare rischiando, mettendosi in gioco nei conflitti derivanti da una acuta critica sociale permanente. Ospitava a casa sua a Parigi gli studenti che avevano bisogno di stare lì per frequentare l'università. Ha viaggiato molto nella sua vita, andava nelle case della gente e si faceva ospitare, andava nelle università occupate in Italia durante la Pantera nel 1990 e nel 1968 abitava per tutto il maggio francese nella Sorbona occupata.
Un giorno mi disse che desiderava che la sua casa di fronte all'università Paris 8, in cui ero ospite, diventasse dopo la sua morte un luogo in cui ospitare studenti stranieri che ne avessero avuto bisogno e che facessero ricerche sull'interculturalità.
Sociologo, pedagogo, filosofo, etnologo... non è mai stato possibile inquadrarlo in nessuna disciplina perchè praticava un approccio trasversale rigoroso. Metteva sempre il dito sulle piaghe sociali fedele sempre all'hic et nunc, all'ici et maintenant.
Ci lascia un'eredità enorme di pratiche, di riflessioni, di stimoli e soprattutto la voglia di continuare a vivere l'incompiutezza dell'uomo.
Un abbraccio a tutti quelli che lo conoscevano personalmente, sento la necessità di condoglianze reciproche
Salvatore Panu

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13 febbraio 2008

Pino Zimba, un “loa” salentino


Giuseppe Mighali, “Zimba”, si distingueva dagli altri. Suonare per lui era ridere.
Lo faceva con la faccia e con tutto il corpo. Un ridere largo, contagioso, leggero e suadente che rendeva unica la ‘sua’ scena. Custodiva in sè una grande eredità psichica e materiale. Ne era orgoglioso, conscio della responsabilità che gli toccava. Un’eredità che era anche la sua benedizione. “Ripercorrere lungo l’arco di quattro generazioni le vicende della famiglia Zimba di Aradeo” scrive Sergio Torsello, nel bellissimo “Zimba, voci, suoni, ritmi di Aradeo” edito nel 2004 da Kurumuny, “significa addentrarsi in un microcosmo in cui sfilano tutti i topos classici della cultura popolare salentina negli ultimi cinquant’anni: il tarantismo, la musicoterapia, la tecnica strumentale del tamburrello, la scena contemporanea della riproposta della ‘pizzica’. E’ come trovarsi al centro di un continuo gioco di specchi in cui si riverberano suoni, immagini e parole che scandiscono il tempo ‘sacro’ e quello profano in una unità indissolubile. Le immagini, speculari, simbolicamente contrapposte eppure entrambe figlie della stessa storia, sono quelle di Francesco Zimba padre, danzante sull’immagine di San Paolo, e quelle patinate del più celebre degli Zimba, Pino, straordinario interprete di se stesso in ‘Sangue Vivo’, memorabile icona winsperiana di un Salento in bilico tra modernità e tradizione, uno dei personaggi simbolo del rinascimento della pizzica”.
Pensare all’arte significa pensare alla bellezza. E la bellezza è energia, grazia che muta l’atto in opera. Il battere del tamburello, “questo piccolo, semplice strumento costruito sullo scheletro del ‘farnaro’, un setaccio che serviva alle donne per ‘scernere’ la farina”, è stato l’opera della fantastica vita di Pino Zimba. Il suo canto lo sentiremo ancora, nelle frequenze digitali che lo consegnano alla storia della musica popolare salentina, ma ci mancheranno la sua generosità, l’entusiasmo, la maestria e i suoi sguardi sempre in allerta, attenti a costruire la magia unica della danza.
Scrive Maya Deren ne ‘I cavalieri divini del Vudù’: “Se nel coro, si sente ad un tratto una voce emergere sola con speciale insistenza, o se, nel cerchio affollato, tra tutti quei corpi che si muovono, se ne nota uno i cui movimenti superano quelli della folla e diventano spettacolari è segno che un loa (stato di divinità) è arrivato. Perché se il segno della dedizione di un uomo ai loa sta nel suo servirli in umiltà, il segno della devozione di un loa all’uomo sta nella sua piena manifestazione. Quindi il virtuosismo appartiene agli dei”. Ecco, Pino Zimba era un virtuoso: in umiltà ha servito le fonti che danno vita, continuità e rinnovamento alla tradizione, e in umiltà ha accolto il dono che dalla tradizione gli veniva.

MM

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18 gennaio 2008

Ciuf! Ciuf! Ciuuuf!!! Il non tempo a Sud Est!


Da circa due anni per necessità, ma anche con un certo piacere, sono pendolare. Da Campi Salentina a Lecce mi sposto in treno. Costa poco e se ti muovi organizzandoti e con il giusto passo puoi farcela perché c’è una variabile indefinita nell’organizzazione delle Ferrovie Sud Est: il tempo. Fattore essenziale per chi viaggia! Chissà se quando c’era lui… la “littorina” giungeva in orario!
Oggi dovevo essere a Maglie per le dieci e trenta. Ottimo! Da Lecce c’è un treno alle nove e quarantatre, arrivo previsto dieci e diciotto, recita l’orario ferroviario invernale feriale. Alle dieci e zerocinque finalmente si parte. Arrivo a Maglie alle undici. Non tanto male poi! Solo tre quarti d’ora di ritardo per fare pochi chilometri. A bordo le carrozze sono piene, tutti a chiedersi, ma con umiltà e rassegnazione, il perché di questo destino. Vana è ogni logica!
Alla partenza la cosa che si nota è una “gran folla” di macchinisti, controllori, maestranze che si affannano intorno alle gloriose carrozze già protagoniste di una delle migliori pellicole girate nel Salento. Quell’Italian Sud Est che in cuor suo, esaltando il ‘paradosso’ della ferrata salentina, puntava alla sua riconsiderazione ed al suo rilancio. Speranza rimasta tale.
La ferrovia salentina fu anche tema della campagna elettorale del presidente Giovanni Pellegrino, che ‘consumò’ due giorni in viaggio, con cameramen al seguito, verso il sud Salento per saggiare in nuce le qualità di quello che, giustamente, considerava uno strumento essenziale del suo nuovo Salento. La chiave di volta di una stagione di progresso, dove mobilità, turismo e marketing territoriale si sarebbero strettamente coniugati.
Nulla purtroppo è cambiato.
Affidarsi ‘depensando’ è il monito: non aver premura! L’avventura è nello spirito di questo vecchio servizio. Come in sogno lasciarsi trasportare! E’ tutto così “familiare”. Viene il controllore, veste di morbido velluto marron intonato al beige della maglione di lana, solo un budge verde lo identifica. Oltre a bucare il biglietto ti chiede dove sei diretto e ti dice dove scendere per proseguire verso la destinazione. Le ferrovie Sud Est sono organizzate per snodi, come una metropolitana con le sue stazioni di “smistamento”. Novoli, Lecce, Zollino, Maglie. Un ideale sistema di tratte che se accordato nelle coincidenze garantirebbe una agevole mobilità. A guardar bene si scorgono atti di modernizzazione. Il cantiere aperto nella tratta Novoli-Carmiano che costringe a trasbordi su pullman. L’elettrificazione e la costruzione di cavalcavia permetteranno la chiusura di alcuni passaggi a livello, mandando in pensione i casellanti: vera pagina mitica della ‘saga’ ferroviaria! Poi penso: si poteva puntare ad una manutenzione generale delle tratte, al rinnovo del parco macchine avviandoci a velocità di “littorina” alla messa a punto del servizio? A rallentare questo processo c’è anche la vertenza aperta dagli ambientalisti e da alcune amministrazioni comunali sulla nuova tratta da costruire nella Valle della Cupa per collegare la stazione di Carmiano con la sede universitaria di Ecotekne.
Unico sollievo il paesaggio. Scorgi frammenti incantati. Il Salento delle pietre, dei tagli nelle cave. Distese di ulivi e di macchia trattengono odori e ti ammaliano quando sei costretto a lunghe pause in aperta campagna. Quel Salento che nella ferrovia trovò il suo piccolo sviluppo che esportava grandi quantità di patate e di tabacco.
L’uomo in marrone ci dice che la stazione di Zollino è prossima, per Maglie si cambia, si raccomanda: “per scendere aspettate che il treno sia fermo”. Perché ci stavamo muovendo?
A margine si segnala che l’unica stazioncina pienamente recuperata e ammodernata è quella minuscola di Melpignano! Zona franca del Salento. Quando dici la taranta!

MM

[foto: locomotiva FSE 1960]

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14 gennaio 2008

Indiana Jones a Lecce

C’era una volta Lecce.
La Lecce del passato la vediamo, inanimata, in ingrandimenti fotografici che mischiati ai viraggi di stampa portano la nostalgia del Tempo che fu.
Un Tempo fatto di carrozze, di tende a righe che morbide riparavano balconi e mercanzie. Verdurai, erbivendoli, carnezzieri e pescivendoli lanciavano richiami. E poi… barbieri ambulanti lettrici di carte, storpi e mendicanti, monaci cercantini. Un inseguirsi di voci che incrociava destini.
C’era una volta una Piazza Sant’Oronzo senza la buca dell’Anfiteatro, l’ovale era in altra posizione cinto tutto intorno da porticati, il Sedile aveva una torretta con l’orologio. La modernità c’aveva portato l’elettricità e una via ferrata portava la gente a San Cataldo, primo tratto di quel filobus che tarda a partire.
La Storia costruisce le sue stratificazioni e le città son venute su riempiendo i buchi del passato, recuperando pietre per fare il nuovo. L’antico non era un problema. Per un lungo arco di tempo il passato non era contemplato come un bene da tutelare. C’era la passione dell’andare avanti, del crescere, del progredire. Poi in parallelo con lo svuotamento e l’imbarbarimento di senso, del portato valoriale, filosofico, ideologico, l’Occidente riscoprì il fascino delle gesta gloriose delle genti originarie. “Salve Dea Roma! Ti sfavilla in fronte il Sol che nasce sulla nuova storia; fulgida in arme, all'ultimo orizzonte sta la Vittoria” cantò il fascismo nel suo Inno a Roma e via a far “fori”. Si fosse limitato a quest’opera di scavo stile Indiana Jones non ci sarebbe stato problema, ma sappiamo tutti com’è andata a finire. Adesso il nostro vice sindaco ed assessore alla cultura s’appresta a varare un piano di recupero della Lecce sommersa che prevede la valorizzazione delle tracce di storia della città, presenti in gran numero sotto il suolo del capoluogo.
Progetto non nuovo. Rimaniamo tranquilli, in guerra non ci porterà! L’obiettivo dell’On. Poli è quello di completare il progetto da tanti anni perseguito con determinazione: fare Lecce ancora più bella, densa ed orgogliosa delle sue suggestioni.
Sentiamo comunque di doverle dare dei consigli avendo in mente l’infinito tempo impiegato per dare forma a Piazzetta Castromediano. Primo atto di ri-scoperta della Lecce nascosta. Che tale è rimasta a ben guardare, nonostante le grandi finestre che ‘illuse’ si alzano per farcela scorgere.
Peccato che non c’è più la segnaletica descrittiva della ‘meraviglia’ sottostante, installata ai tempi dei lavori di scavo. Quello sì un modo per guardare indietro, per farsi un’idea di ciò che il tempo ha mutato. Una pagina a volte dice molto di più di poche pietre. Quello che del progetto ci convince, più che far fori qui e là, è l’intenzione del recupero e della piena valorizzazione del Parco di Rudiae.
Il museo diffuso a pensarci c’è già: è Lecce stessa. Il problema è mostrarlo, concertarlo tenendo le chiese aperte, i cortili aperti con più frequenza e metodo. Rendendo agibili e traversabili le vestigia dell’anfiteatro, del teatro e del Castello di Carlo V. Il resto potrebbe essere descritto, raccontato da ‘pagine aperte’ e dai racconti delle guide.
Una città che basta a se stessa, Lecce, così com’è se solo ci accorgessimo della sua qualità continuamente tradita e illusa, delle sue necessità minime di cura e di tutela.
Ma questo è un altro discorso!

MM

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SIDEROFONO RAUCO oggetto sonoro di
  • antonio de luca



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