fine pena mai
Melpignano, lunedì 30 aprile ’07, ore 20.00
La ‘festa’ di “Fine pena mai” è a Melpignano. E’ sera le luminarie, in attesa, spente coronano la piazza, custodiscono la visione. L’alchimia propria del cinema è scrivere ‘mondi’. L’idealità di luoghi diversi scrive una realtà altra: unifica, toglie distanze, fantastica. Aspettiamo Antonio (Claudio Santamaria) e Daniela (Valentina Cervi): ‘balleranno’ la piazza. Davide Barletti e Lorenzo Conte provano lo spazio ad uso del direttore della fotografia. Misurano le distanze, costruiscono le inquadrature. Una economia del possibile che misura luce, virtù tecniche, desideri creativi.
In realtà si fa una scena già girata in precedenza. Il set precedente era a Galatone, ci racconta la scenografa Sabrina Balestra. La luminaria spiantata da terra, rotta dalla sua architettura ‘naturale’, poggiata al pavimento. Una vertigine, un capogiro amplificato dalla pioggia venuta a fare specchio sul lastricato di pietra dura. La psichedelia delle luci disegnava un percorso che i due protagonisti attraversavano in una scena dove sanno ‘per la prima volta’ la paura.
“Hai paura?”. “Paura? E paura di cosa?”. “Sono sei mesi che non vai più a Padova, non studiamo più. Tonio, cosa stiamo facendo? Mi sento come allo sbando, forse dovremmo darci una calmata. Ammettilo che pure tu hai paura, ti prego ammettilo”. “Lela, io non ho paura di niente…”.
Era rappresentato un Salento che smonta la sua cartolina, la leziosità di una visione potente ma ormai consueta della festa per accogliere e scrivere una visione di smarrimento, di inquietudine, per inquadrare una realtà in disfacimento, allucinata e smarrita. Questo era il Salento che tra gli anni settanta e ottanta conosce la diffusione delle droghe ed insieme la strutturazione di un potere malavitoso artefice e insieme vittima di quel mercato. Tanti “boss”, sedotti dalla magia euforica delle sostanze, vedono infrangersi il loro potere assoggettati alle dipendenze, al vizio che non conosce comando ed omologa nel bisogno. ‘Li scoppiati’, ‘li tossici’, il popolo di quella sciagurata epoca si mescolava nella morsa interclassista delle polveri. Nomi aristocratici e nomi della buona borghesia mischiati a quelli che divenivano illustri per motivi di cronaca.
“Fine pena mai” scrive questo frammento di storia attraverso la metafora di un amore denso e “disgraziato” con il suo destino di dolore.
Racconta Daniela nel documentario che completa il film (nello stile proprio dei Fluidi): “Ci amavamo. Eravamo sicuri che tutto sarebbe stato bellissimo” il giorno del nostro matrimonio “fu l’ultimo giorno felice della nostra vita. Ci siamo sposati il 20 luglio del 1978. Il 21 la nostra vita cominciò ad andare a fondo”.
Oggi Antonio dopo 23 anni sconta il suo “fine pena mai” fuori dal regime speciale per associazione mafiosa (il 41 bis) che imponeva l'isolamento, limitava le ore d'aria, i contatti tra i detenuti, i colloqui coi familiari e rifiutava i permessi e le misure alternative (affidamento, semi-libertà, detenzione domiciliare) concessi ai detenuti comuni.
MM
La ‘festa’ di “Fine pena mai” è a Melpignano. E’ sera le luminarie, in attesa, spente coronano la piazza, custodiscono la visione. L’alchimia propria del cinema è scrivere ‘mondi’. L’idealità di luoghi diversi scrive una realtà altra: unifica, toglie distanze, fantastica. Aspettiamo Antonio (Claudio Santamaria) e Daniela (Valentina Cervi): ‘balleranno’ la piazza. Davide Barletti e Lorenzo Conte provano lo spazio ad uso del direttore della fotografia. Misurano le distanze, costruiscono le inquadrature. Una economia del possibile che misura luce, virtù tecniche, desideri creativi.
In realtà si fa una scena già girata in precedenza. Il set precedente era a Galatone, ci racconta la scenografa Sabrina Balestra. La luminaria spiantata da terra, rotta dalla sua architettura ‘naturale’, poggiata al pavimento. Una vertigine, un capogiro amplificato dalla pioggia venuta a fare specchio sul lastricato di pietra dura. La psichedelia delle luci disegnava un percorso che i due protagonisti attraversavano in una scena dove sanno ‘per la prima volta’ la paura.
“Hai paura?”. “Paura? E paura di cosa?”. “Sono sei mesi che non vai più a Padova, non studiamo più. Tonio, cosa stiamo facendo? Mi sento come allo sbando, forse dovremmo darci una calmata. Ammettilo che pure tu hai paura, ti prego ammettilo”. “Lela, io non ho paura di niente…”.
Era rappresentato un Salento che smonta la sua cartolina, la leziosità di una visione potente ma ormai consueta della festa per accogliere e scrivere una visione di smarrimento, di inquietudine, per inquadrare una realtà in disfacimento, allucinata e smarrita. Questo era il Salento che tra gli anni settanta e ottanta conosce la diffusione delle droghe ed insieme la strutturazione di un potere malavitoso artefice e insieme vittima di quel mercato. Tanti “boss”, sedotti dalla magia euforica delle sostanze, vedono infrangersi il loro potere assoggettati alle dipendenze, al vizio che non conosce comando ed omologa nel bisogno. ‘Li scoppiati’, ‘li tossici’, il popolo di quella sciagurata epoca si mescolava nella morsa interclassista delle polveri. Nomi aristocratici e nomi della buona borghesia mischiati a quelli che divenivano illustri per motivi di cronaca.
“Fine pena mai” scrive questo frammento di storia attraverso la metafora di un amore denso e “disgraziato” con il suo destino di dolore.
Racconta Daniela nel documentario che completa il film (nello stile proprio dei Fluidi): “Ci amavamo. Eravamo sicuri che tutto sarebbe stato bellissimo” il giorno del nostro matrimonio “fu l’ultimo giorno felice della nostra vita. Ci siamo sposati il 20 luglio del 1978. Il 21 la nostra vita cominciò ad andare a fondo”.
Oggi Antonio dopo 23 anni sconta il suo “fine pena mai” fuori dal regime speciale per associazione mafiosa (il 41 bis) che imponeva l'isolamento, limitava le ore d'aria, i contatti tra i detenuti, i colloqui coi familiari e rifiutava i permessi e le misure alternative (affidamento, semi-libertà, detenzione domiciliare) concessi ai detenuti comuni.
MM
0 Comments:
Posta un commento
<< Home